Cultura
Pantelleria 1943 – Diario del Cap. Martello difensore della piazzaforte dell’isola – Fine
Dal diario del capitano galatonese Francesco Martello / 3
Un difensore della piazzaforte di Pantelleria nel 1943
La prigionia in Marocco del Cap. Martello
Dopo la descrizione degli avvenimenti dell’11 giugno 1943, il diario del capitano Martello continua raccontando dei giorni cupi e tristissimi della prigionia in Nord-Africa. In questo periodo degli avvenimenti che lo hanno visto partecipe a Pantelleria tace, troppo l’angustia e l’annichilisce l’essere rinchiuso in un posto ristretto senza potersi muovere liberamente per gli spazi circostanti.
In una malinconica pagina del diario, scritta nel campo americano P.O.W (Prisoners Of War) n° 101 di Berrechid nel Marocco francese, leggiamo: “Campo 101; 11- 11- 1943 Si può tenere il corpo chiuso in un recinto di filo spinato, ma non si può vietare all’animo, allo spirito di vagare, di librarsi in volo, di attraversare immense distese di terra e di mare ed arrivare sin dove qualche cosa di caro lo attende. Il ricordo del passato, la speranza del futuro tengono su questo mio corpo che, al pari dello spirito, attende con impazienza di arrivare fin dove arriva ora lo spirito…..”.
Il ricordo di Pantelleria
E con la malinconia compare sempre più spesso il pensiero della morte. Lui che non ha mai avuto paura a Pantelleria sotto i tremendi ininterrotti bombardamenti del nemico. E annota: “Berrechid (Marocco) – Campo 101; 11-12-1943 ore 16 Sesto mese di prigionia… anche ieri pensavo alla morte. Non la pensai quando più cruenta era la battaglia, quando le bombe mi scoppiavano vicino, quando vedevo altri morire. Allora ero allegro, allora non pensavo alla morte, avevo fiducia nella vita. Ieri no…”.
Soltanto un anno dopo, il 12 giugno 1944, anniversario dell’inizio della sua prigionia, riprende a narrare del giorno successivo alla resa. Infatti nel foglio matricolare del Martello, come di tanti altri militari italiani presi dagli anglo-americani nell’isola, è sì annotata come data di cattura l’11 giugno, ma in realtà per la gran parte di essi la data della presa in consegna da parte degli Alleati è il 12 giugno.
Da annotare che altri militari verranno catturati nei giorni successivi a seguito di più mirati e stringenti rastrellamenti da parte britannica. Particolare poco noto invece è quello dei numerosi militi della MILMART, in stragrande maggioranza panteschi, che si tolsero semplicemente la divisa, che peraltro era la camicia nera e che era odiatissima dagli inglesi, e si confusero tra la popolazione, tornando poi tranquillamente alle loro case.
Le camice nere confuse tra la popolazione
Di quest’ultimo fatto ho avuto conferma
in tanti colloqui, riguardanti quei lontani avvenimenti, da mio zio Agostino Salsedo, milite alla batteria di Cuddie Rosse in contrada Mursia. Al momento dell’anniversario della sua cattura il capitano Francesco Martello si trova al convalescenziario “Santa Barbara” del campo statunitense P.O.W. n° 131, ubicato a Natousa presso Orano in Algeria, ed è reduce dall’ospedale americano del campo P.O.W. n° 129 per la recrudescenza di una malattia contratta nei precedenti mesi di prigionia. Questa malattia, mai del tutto curata bene, lo condurrà poi alla morte una volta rientrato in patria.
L’anniversario della cattura – Lasciando Khamma
Così annota il Nostro nell’anniversario della cattura: “12.6.1943 – 12.6.1944 Ad un anno di distanza rivivo ancora il tempo passato. Alle ore 7 di quel giorno parto da Kamma tra la commozione di tutti i famigliari di chi mi aveva dato ospitalità, per recarmi a Pantelleria assieme al mio attendente, i Siragusa marito e moglie, quello di Nardò (Marinaci) ed un altro borghese. Siamo in sei. Lungo la via vediamo disseminati moschetti, elmetti, giberne ed ogni sorta di altro materiale che fa parte dell’equipaggiamento individuale e collettivo del soldato. Man mano che ci avviciniamo a Pantelleria, cioè verso la zona martellata dall’aviazione nemica, si osserva la distruzione compiuta dalle bombe: baracche distrutte dal fuoco, postazioni scollate, armi fracassate, case diroccate, buche immense ovunque. La valanga di ferro e di fuoco è passata da questa zona. Sento ancora nel mio orecchio il fischio e lo squarcio assordante delle bombe, il sospiro di sollievo che usciva dai nostri petti e la rituale frase “questa volta è passata”. Si unisce a noi un’altra famiglia che ritorna alla propria casa e così, parlando del disastro del giorno, inganniamo la lunghezza della strada. Mi distacco dalla compagnia appena arrivato alla casetta (a Cuddia Bruciata, nda) che sino al giorno prima era l’ufficio del mio reparto. Entro. Uno spettacolo di squallore: carte per terra, scaffali sottosopra, tiretti sconquassati. Il nemico sperava di trovare documenti importanti. Di là passo al ripostiglio e così ho il contatto con i primi inglesi che distribuiscono ai borghesi tutti i viveri là in deposito. I due soldati inglesi, nella loro lingua per me incomprensibile e con gesti, mi fanno comprendere di seguirli. Passiamo così dalla casa dove avevo tutto il mio corredo personale. Assieme a loro entriamo e vi trovo due altri inglesi che già in cucina lavoravano per approntare da mangiare. Vado nella stanza dove avevo la mia roba e non vi trovo nulla. Dico nulla. Mi hanno portato via financo la corrispondenza. Pazienza!
Il bidone di moscato offerto agli inglesi
L’attendente cerca e trova ancora pieno il bidone di moscato. Dopo aver bevuto noi ne offriamo agli inglesi che lo trovano ottimo. Lo lascio tutto per loro e mi avvio con i due miei angeli custodi. Mi conducono da un loro Capitano il quale, dopo avermi rivolto alcune frasi che io non capì ed alle quali risposi sempre di sì, mi indica la via da seguire per recarmi al porto. Lungo questa via incomincio ad avere il primo simpatico contatto con la truppa inglese. Prima cosa mi vien tolto l’orologio da polso. Arrivo al porto. Mi imbarco subito su una motozattera ed alle 9 ci mettiamo in navigazione. Siamo otto zattere in convoglio scortato. Alle ore 10 siamo attaccati da alcuni aerei tedeschi che ci mitragliano e spezzonano. Fanno due passate su di noi. Le bombe ci cadono vicine. Il fischio dei proiettili ci fa accovacciare lungo le paratìe. In seguito forse allo sventolio di drappi bianchi, i tedeschi prendono il largo e così continuiamo la navigazione con un mare che mi fa soffrire un po’”.
Le incursioni dei cacciabombardieri sul porto di Pantelleria
Quel giorno il capitano Martello e gli altri la scamparono per il rotto della cuffia. Infatti il 12 giugno, fin dal mattino, vi furono effettivamente incursioni sul porto di Pantelleria da parte di cacciabombardieri Focke-Wulf Fw 190 della Luftwaffe. E poiché i mezzi navali, che erano serviti per sbarcare le truppe d’assalto inglesi nell’isola, erano stati adibiti al trasporto dei prigionieri verso la Tunisia, in un primo momento i piloti tedeschi scambiarono quelle imbarcazioni, piene zeppe di militari, per truppe britanniche e si lanciarono animosamente all’attacco.
Fortunatamente gli italiani cominciarono immediatamente a gridare e a sventolare lenzuoli e drappi bianchi e l’equivoco, salvo qualche sventagliata di mitragliatrice e qualche bomba caduta peraltro lontano, fu presto chiarito. Quei piloti furono davvero abili, anche perché nel contempo erano oggetto di un furioso fuoco contraereo.
Un’immane tragedia fu quindi evitata, tragedia che avrebbe avuto il sapore di una beffa atroce. Nel pomeriggio poi gli aerei tedeschi misero definitivamente fuori uso il mezzo navale antiaereo Landing Craft Flack 13. Particolare curioso nel diario sono anche riportate minuziosamente due ricette pantesche. Quella della “passola” e quella del “moscato con l’uva passa”. Anche se vi era vissuto soltanto in giorni di guerra, Pantelleria era rimasta nel cuore del diarista.
Chapeau alla memoria del capitano Francesco Maria Martello.
Orazio Ferrara
(3 – fine)
Cultura
Pantelleria, lavori di adeguamento, messa in sicurezza ed efficientamento energetico della palestra della Scuola Media “Dante Alighieri”
Alla cittadinanza, Il Sindaco comunica che l’Amministrazione comunale di Pantelleria ha portato a compimento l’iter amministrativo e progettuale necessario per il recupero e la piena rifunzionalizzazione della palestra della Scuola Media “Dante Alighieri”, struttura da tempo inagibile e fortemente attesa dalla comunità scolastica dell’isola. Il Sindaco comunica che l’intervento rientra in una più ampia strategia di riqualificazione dell’edilizia scolastica, con l’obiettivo prioritario di garantire sicurezza, accessibilità, sostenibilità energetica e qualità degli spazi destinati alle attività formative e sportive.
Il progetto prevede opere di adeguamento strutturale e funzionale, la messa in sicurezza dell’edificio, il miglioramento delle prestazioni energetiche attraverso l’installazione di impianti moderni e l’utilizzo di fonti rinnovabili, nonché il completo ripristino della fruibilità della palestra per studenti, associazioni sportive e iniziative collettive. Il Sindaco comunica che l’intervento consentirà di restituire alla cittadinanza una struttura fondamentale per la crescita educativa, sociale e sportiva dei giovani di Pantelleria, colmando una carenza che per anni ha inciso negativamente sull’offerta di spazi adeguati alle attività motorie.
L’Amministrazione è consapevole che l’esecuzione dei lavori potrà comportare disagi temporanei; tuttavia, il cronoprogramma è stato definito con l’obiettivo di contenere l’impatto sulle attività scolastiche, con una durata complessiva stimata in circa 14 settimane. L’Amministrazione continuerà a seguire con attenzione tutte le fasi successive, dall’affidamento dei lavori alla loro realizzazione, assicurando trasparenza, rispetto dei tempi e tutela dell’interesse pubblico. Pantelleria guarda avanti, investendo sulle scuole, sulla sicurezza e sul futuro delle nuove generazioni.
Cultura
Il violinista di Solarino Don Paolo Teodoro e le radici di una tradizione di due secoli
La storia nascosta di un paese che ha fatto della musica una firma identitaria
Nel 1827, quando il paese non era ancora Comune, un documento d’archivio rivela la presenza inattesa di un musicista professionista. Da allora Solarino non ha mai smesso di essere una comunità musicale.
Solarino – Nel 1827 il paese non era ancora autonomo e viveva un momento di transizione politica e amministrativa. Eppure, in quell’anno cruciale, emerge un dettaglio sorprendente che permette di leggere la storia locale da una prospettiva nuova. Tra gli atti conservati presso l’Archivio di Stato di Siracusa compare il nome di Don Paolo Teodoro, registrato come violinista.
Un dato che, per l’epoca, spacca in due l’immagine consueta di un borgo rurale fatto solo di agricoltori e artigiani.
Il musicista che rompe gli schemi
Il documento mostra chiaramente che Don Paolo Teodoro non era soltanto un residente rispettato di Solarino. Era un musicista. Un ruolo insolito in un contesto rurale del primo Ottocento, dove la musica raramente compariva nelle registrazioni ufficiali. Teodoro abitava in via Fontana, insieme alla moglie Costantino Eloisa, ma la sua formazione aveva radici ancora più profonde. Da giovane, infatti, era cresciuto in una parte dell’attuale Palazzo Requesens, allora indicato come Piano Palazzo n.2, oggi cuore dell’odierna Piazza del Plebiscito, luogo simbolo della vita sociale solarinese. Una crescita in un ambiente architettonico e culturale privilegiato che spiega – almeno in parte – la precocità di una vocazione musicale riconosciuta persino dagli atti civili borbonici.
Una tradizione musicale che Solarino non ha mai abbandonato
Il caso di Don Paolo Teodoro non è un episodio isolato, ma il primo tassello visibile di una storia più lunga. Perché a differenza di tanti altri centri siciliani, Solarino non ha mai smesso di essere un paese musicale. Bande storiche, maestri locali, scuole di musica, gruppi giovanili, famiglie che tramandano strumenti da generazioni, musicisti nazionali , la musica, qui, non è un accessorio, ma un linguaggio collettivo. E questa continuità testimonia una capacità rara: fare dell’arte una parte della propria identità civile. Non tutte le comunità hanno saputo compiere questa scelta. Molti centri rurali hanno perso nel corso del Novecento le proprie tradizioni culturali, travolti da emigrazione e modernizzazione. Solarino, invece, ha seguito una traiettoria diversa: ha difeso la musica, l’ha fatta propria, l’ha trasformata in patrimonio comune.
Questo è il vero punto di forza del paese. Una maturità culturale che trova le sue prime radici in persone come Don Paolo Teodoro: uomini capaci, già due secoli fa, di portare l’arte dentro la vita quotidiana di una comunità in trasformazione. Oggi, quando strumenti e prove musicali risuonano nelle case, nelle scuole e nelle piazze, è possibile intravedere un filo diretto con quella firma d’archivio del 1827. Solarino continua a distinguersi per il suo fermento artistico. E la storia del violinista Don Paolo Teodoro si rivela allora molto più che una curiosità d’epoca: è l’origine documentata di un percorso identitario che il paese ha scelto di portare avanti con orgoglio. Due secoli dopo, Solarino resta un paese che suona e questa è, senza dubbio, una delle sue vittorie più grandi.
Laura Liistro
Cultura
Elena Pizzuto Antinoro: da Santo Stefano Quisquina alla scena internazionale della ricerca linguistica
Donna siciliana, studiosa di straordinaria competenza e voce autorevole della ricerca italiana, Elena Pizzuto Antinoro è considerata una delle figure più influenti negli studi contemporanei sulla comunicazione e sulle lingue dei segni.
Psicologa, linguista e ricercatrice del Consiglio Nazionale delle Ricerche, ha contribuito in modo determinante al riconoscimento della Lingua dei Segni Italiana (LIS) come sistema linguistico pienamente strutturato, superando visioni riduttive che ne avevano a lungo limitato la comprensione. Il suo percorso accademico si è svolto tra l’Italia e gli Stati Uniti, dove ha approfondito la Lingua dei Segni Americana (ASL) entrando in contatto con metodologie di ricerca all’avanguardia. Questa esperienza internazionale fu decisiva: rientrata in Italia, introdusse nuovi paradigmi analitici che avrebbero innovato radicalmente lo studio della LIS, collocando la ricerca italiana in un dialogo costante con quella mondiale. Caratteristica centrale del suo lavoro fu l’approccio interdisciplinare.
Elena operò a stretto contatto con persone sorde, analizzando i processi cognitivi, le strutture linguistiche e le dinamiche comunicative della lingua visivo-gestuale. Le sue pubblicazioni rappresentano oggi un riferimento fondamentale non solo in Italia, ma anche nel contesto internazionale degli studi sulle lingue dei segni. Tra le iniziative più rilevanti da lei guidate figura VISEL, progetto dedicato allo sviluppo di sistemi di scrittura per la lingua dei segni e alla definizione di strumenti didattici innovativi. Un contributo che ha ampliato le possibilità di ricerca e di accesso alla comunicazione visiva, rafforzando il ruolo dell’Italia nel panorama scientifico globale. Colleghi e collaboratori ricordano Elena Pizzuto Antinoro come una professionista rigorosa, dotata di una forte integrità etica e di una visione capace di anticipare nuove prospettive. Il silenzioso applauso con cui la comunità sorda l’ha salutata ne sottolinea il profondo impatto umano e scientifico.
Oggi, Elena Pizzuto Antinoro è riconosciuta come una figura chiave della linguistica internazionale e un esempio di eccellenza femminile nel mondo accademico. Siciliana, figlia di Santo Stefano Quisquina, ha portato la sua terra d’origine nei principali centri di ricerca del mondo, lasciando un’eredità destinata a influenzare a lungo gli studi sulla comunicazione e sulle lingue dei segni.
Laura Liistro
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