Cultura
Pantelleria e la fine della goletta Amabile Carolina
La fine della goletta Amabile Carolina
Ai primi di gennaio del ’43 spesso si poteva notare, ancorata nel porto di Pantelleria, una bellissima goletta a due alberi con bompresso dal singolare e simpatico nome di “Amabile Carolina”. Questa goletta del Compartimento di Trapani era stata requisita con Regio Decreto per le esigenze delle Forze Armate e inscritto nel ruolo del naviglio ausiliario dello Stato, categoria navi onerarie, a decorrere dalle ore 15:00 del 21 dicembre 1942. Compito principale da quel momento era trasportare munizionamento e carburante alle nostre truppe, che stavano combattendo in Tunisia con un eroismo degno di miglior sorte. Generalmente la goletta con il materiale bellico partiva Trapani, facendo sosta a Pantelleria, poi dirigeva alla volta del porto tunisino di Sfax, il più vicino alla linea del fronte. Non poche volte però il carico era prelevato nella stessa isola di Pantelleria. L’Amabile Carolina era un motoveliero goletta, a due alberi e bompresso, con motore Diesel a 4 tempi della ditta Motoren Werke Mannheim installato nel 1939.
La goletta era stata costruita nel 1907 dal cantiere “Francesco Terrizzano” d’Imperia. Da questo cantiere erano stati varati, in quel periodo, alcuni dei più belli navigli della marineria dell’epoca velica. L’Amabile Carolina aveva una lunghezza di 26,70 metri, una larghezza di 6,91 metri e un pescaggio di 2,50 metri. La sua stazza lorda era di 88,80 tonnellate, mentre quella netta di 61,56. Era iscritta al Compartimento Marittimo di Trapani con matricola n° 515 ed era di proprietà dell’armatore trapanese Giuseppe Russo. Sul far della sera del 22 gennaio 1943 ci fu movimento nel porto di Pantelleria, infatti si stavano caricando numerosi fusti di benzina e di nafta sull’Amabile Carolina, destinati al fronte tunisino. Terminato di sistemare a bordo il prezioso carico, la goletta alle ore 23:00 circa prese il largo.
La destinazione, come di consueto, era il porto di Sfax. La notte passò tranquilla e verso le ore 09:00 del 23 gennaio l’Amabile Carolina si trovava ormai a poche miglia da Hammamet (quindi si era seguita la rotta più breve tra Pantelleria e la Tunisia), a quel punto la goletta virò con rotta verso sud. Era intenzione del capitano di navigare sotto costa fino a Sfax, in modo da usufruire della protezione delle batterie costiere italo-tedesche. Ma il destino beffardo aveva deciso altrimenti. Quel giorno in quelle stesse acque era in agguato il sommergibile britannico Unruffled (Imperturbabile) in sigla P 46, al comando del tenente John Samuel Stevens. L’HMS Unruffled, che
aveva la sua base nella vicina isola di Malta, era armato con 4 tubi lanciasiluri interni di prua da 533 mm e con un cannone da 76 mm.
Dal diario di bordo del sommergibile apprendiamo i particolari dell’attacco all’unità italiana. Alle ore 09.15 il comandante Stevens avvistò gli alberi di un naviglio nemico in avvicinamento da est, per cui diede ordine al suo equipaggio di prepararsi al combattimento. Ore 09:54 il sommergibile emerse, a circa 2.000 metri dalla goletta, per aprire subitaneamente il fuoco col suo cannone da 76.
Furono sparati una trentina di colpi, di cui una decina centrati, ma con danni non gravi. L’equipaggio italiano abbandonò immediatamente la nave per l’estrema pericolosità del carico trasportato e raggiunse a salvamento la vicina spiaggia, salvo due marinai morti all’inizio sotto i primi colpi inglesi. Intanto dalla costa una batteria italiana aveva assistito all’attacco e aprì decisamente il fuoco contro l’Unruffled. Alle ore 10:22 il sommergibile britannico fu costretto ad immergersi in quanto i colpi della batteria erano caduti pericolosamente vicini. Ma il testardo comandante Stevens diede ordine di riemergere qualche minuto dopo (ore 10:26), sua intenzione era di abbordare addirittura l’Amabile Carolina ed impadronirsene. Ciò non fu possibile perché la batteria italiana aveva riaperto il fuoco.
Fu giocoforza immergersi nuovamente. Alle ore 10:48 l’Unruffled, immerso, lanciò un siluro da circa 900 metri, che centrò in pieno la goletta. Fu questione di pochi istanti e la stessa si disintegrò letteralmente tra grandi bagliori di fiamme e una spessa nuvolaglia di fumo nero. Intanto Stevens annotava laconicamente “She was probably carrying petrol” (Probabilmente trasportava benzina).
Quel che rimane dell’Amabile Carolina giace nei fondali marini presso la costa tunisina tra Hammamet e Enfida in posizione 36° 12’ N, 10° 37’ E.
Orazio Ferrara
Cultura
Pantelleria, I racconti del vecchio marinaio pantesco
In viaggio con patrun Vito
Il sole scendeva lento sul porto vecchio di Pantelleria, tingendo di rosso scuro le pietre di lava delle parate difensive del castello a guardia sempiterna dello specchio di mare antistante. Era un pomeriggio inoltrato di uno dei primi anni Sessanta e io, curioso come sempre di cose di mare, mi fermai ad osservare un vecchio marinaio seduto, tranquillo e silenzioso, su una bitta della banchina.
Poteva avere sui settant’anni e la salsedine e il maestrale di tutti quegli anni gli avevano modellato il viso come una fitta e intricata ragnatela, che non metteva affatto repulsione, anzi lo rendeva del tutto simpatico, facendomi subito riandare con la mente ai vecchi marinai di Salgari, i cui romanzi di mare in quel tempo erano una delle mie letture preferite. Il vecchio marinaio era intento a battere con forti colpi, ripetutamente. la sua pipa sulla suola di una scarpa, ma a me sembrò che non volesse scrollarsi soltanto della cenere, piuttosto dei pensieri molesti, carico gravoso e ineludibile che ti regala la vecchiaia. Alla mia domanda se avesse mai fatto parte di un equipaggio di un veliero pantesco dei tempi andati, alzò lo sguardo tra il meravigliato e l’indispettito e con la pipa a mezz’aria.
Ma cosa poteva mai interessare a quel ragazzotto, che sembrava tornare allora allora da una giornata di mare passata tra gli scogli di punta San Leonardo, di un tempo ormai irrimediabilmente perduto? Poi parlò con voce roca come ghiaia che si muove sotto le onde del mare e disse: “Sugn’ statu prima picciotto ‘ì varca appoi marenaro”.
Dunque prima mozzo e poi marinaio, quindi una vita sul mare fin da giovanissimo Dette queste parole si tacque e caricò lentamente la pipa con del tabacco nero come la pece e l’accese. Sembrava che il colloquio fosse finito lì, quando riprese a parlare con quella sua voce roca, che sapeva di mare antico.
“Fici lu primu viaggiu da Pantiddraria a Napule ca varca ‘i patrun Vitu”. A questo punto, per il lettore che non intende bene il siciliano, continuo il racconto in italiano, salvo, per inciso, qualche espressione dialettale. “Allora ero picciotto ‘ì varca. Era il 1903, o forse il 1904, chi si nni ricorda cchiù e in quegli anni patron Vito era il capitano di veliero più sperto di Pantelleria e dopo ‘u Signuri nostru era il mare ad avere tutta la sua devozione.
In navigazione, pur con tutta la sua indiscussa bravura in cose di mare, non era mai arrogante perché soleva ripetere “Cu mari e cu venti ‘un tti fa valenti” (Con il mare e con i venti non essere arrogante o peggio spavaldo).
“Il veliero di patrun Vito non era grande, ma era solido e forte come una pietra nivura della nostra isola. Si chiamava “Madonna di Trapani” ed era stato varato nei cantieri di Amalfi nell’anno 1890, se non ricordo male. Ha navigato, attrezzato poi con un motore, fino alla vigilia dell’ultima guerra.
Ai miei tempi andava solo a vela. Aveva due alberi e bompresso e dispiegava una velatura, che lo faceva filare dritto sul mare come una freccia. Allora le barche avevano ancora un’anima di tela, bianca come le ali di un angelo. Il giorno della partenza, che per me era l’inizio del primo viaggio per mare come picciotto, la stiva era piena zeppa fino all’orlo. I sacchi più pesanti erano lì, i capperi di Bommarino. Quelli che si mettono sotto sale, carnosi, quelli che danno sapore a tutto quel che mangi. E poi, le cassette, con la stoffa sopra per non farle scaldare, dell’uva passa più bella, quella della contrada di Grazia di Sopra. Seccata al sole nostro africano, dolce come il miele, la nostra Zibibbo, trasformata in oro, doveva arrivare a Napoli al più presto possibile, dove la gente danarosa la voleva per i loro dolci.
Patron Vito fu categorico: da Pantelleria a Napoli senza scali in porti intermedi. Se Dio vuole, in tre giorni. E così fu. Uscimmo dal porto con il vento buono, lasciandoci presto alle spalle ‘a petra ‘i fora. La brezza gonfiava la vela maestra come il petto di un galletto in amore. Sette, a volte otto nodi, in pieno giorno. Un trotto regolare. Potevi quasi sentirla, la barca che mangiava il mare, spinta solo da quelle tele spiegate e dalla bravura di Vito e del nostromo Turi.
Il capitano Vito non dormiva. Stava lì, con il timone in mano, a parlare con il vento e con le onde, a sentire l’odore del mare che cambiava. Dalla costa siciliana fino a che non vedevi altro che blu. Non voleva fermarsi. Non per Messina, non per Salerno. Doveva essere un viaggio diretto. Un viaggio cui dovevano vantarsi, al ritorno, tutti i marinai dell’equipaggio nelle lunghe serate invernali pantesche davanti a un buon bicchiere di vino passito. La vita a bordo era semplice: pane, cipolla e qualche sarda salata.
Il silenzio
Ma la cosa più bella era il silenzio. Solo lo scricchiolio del legno, il vento che fischiava nelle sartie e il suono delle onde che si aprivano, inchinandosi, sotto la prua. Per tre giorni e tre notti vedemmo solo l’orizzonte. Poi, all’alba del quarto giorno, quando il sole cominciava a spuntare, eccola. La sagoma grande, colorata, di Napoli, all’ombra del suo gigante nero, il Vesuvio.
Solo in quel momento patrun Vitu tirò un sospiro che sembrava quello del mare intero. Attraccammo, e il carico era perfetto. I capperi profumavano, l’uva passa era intatta. Era così, allora. L’abilità e il coraggio di un uomo di mare pantesco e i frutti della sua terra.
Oggi, ci sono i motori, e quella meravigliosa sensazione di andare per mare spinti solo dal vento di ‘u Signuri nostru … quella non la senti più”. E si tacque, batté più volte la pipa sulla suola della scarpa per scrollare la cenere e si perse, silenzioso, nei suoi pensieri antichi incrostati di salsedine.
Orazio Ferrara
Personaggi
E’ morta Ornella Vanoni, un’artista di grande di stile, simpatia e sagacia
“Io voglio vivere finchè do alla vita qualcosa”
Il mondo della musica perde una vera icona… “senza fine”
La voce tra le più imitate e seducenti della musica italiana si è spenta per sempre.
Ornella Vanoni è morta a 91 anni, nella sua casa di Milano, colpita da un arresto cardiocircolatorio. I soccorritori sono arrivati quando ormai era troppo tardi.
Classe ’34, con lei si chiude un sipario dello spettacolo senza tempo e senza repliche. L’artista, che aveva esordito nello spettacolo a teatro con Strehiler, non era solo una cantante, era un simbolo capace di attraversare epoche senza mai diventare fuori moda.
All’attivo si contano quasi settant’anni di carriera e oltre 55 milioni di dischi venduti, che hanno scolpito la sua voce nella memoria mondiale.
La personalità forte, caratterizzata spesso da sferzate pungenti, era dotata di grande intelligenza e capacità da riuscire a cantare sul palco duettando con giovani big della canzone italiana.
Negli ultimi anni era diventata la presenza fissa più attesa da Fabio Fazio, forse più della Littizzetto, che superava in simpatia e spontaneità.
Lo scorso giugno venne insignita della laurea honoris causa. Durante la cerimoni seppe manifestare la sua regale umiltà.
Parlando della morte, la cantante milanese così si è espressa “Io non voglio morire troppo grande. Io voglio vivere finchè alla vita do qualcosa e la vita mi dà. Il giorno in cui non dò più o non mi dà, io non voglio vivere.”
Ieri sera se ne è così come ha vissuto, con stile, senza clamore.
Di lei rimarranno le sue canzoni intramontabili, impresse addosso al suo pubblico come cicatrici dolci.
Cultura
Gran Galà delle Lady Chef – Prima Edizione Siciliana
Il 24 e 25 novembre, presso l’Hotel Casena dei Colli di Palermo, si svolgerà la prima edizione del Gran Galà delle Lady Chef, promosso dall’Unione Regionale Cuochi Siciliani
Un evento che intende valorizzare il ruolo delle donne chef, protagoniste della cucina professionale siciliana, e celebrare la loro competenza, dedizione e passione.
Il comparto Lady Chef, nato ventinove anni fa, ha come obiettivo quello di mettere in risalto la figura femminile nelle cucine e di contribuire al superamento del divario di genere. Il Gran Galà sarà dunque un’occasione di incontro e di festa, ma anche di riflessione e confronto, nel segno dello spirito associazionistico che anima l’Unione Regionale Cuochi Siciliani.
All’interno della manifestazione si terrà la selezione regionale del Concorso Cirio, che decreterà la Lady Chef siciliana chiamata a rappresentare la regione nella fase nazionale dei Campionati della Cucina Italiana a Rimini
“Una vera e propria festa – ha dichiarato la Coordinatrice Regionale, Chef Rosi Napoli – che vuole essere anche un momento di condivisione, riflessione e confronto”. Le Lady Chef provenienti da tutte le province siciliane si ritroveranno a Palermo per vivere insieme due giornate intense, all’insegna della collaborazione e della professionalità.
“Celebreremo la bellezza – ha concluso Chef Napoli – quella che rimane anche sui volti stanchi dopo ore di lavoro. Celebreremo i sacrifici, la competenza e la forza delle nostre meravigliose Lady Chef.”
A moderare l’evento sarà la food blogger e Lady Chef, Barbara Conti, Segretario Provinciale APCI di Ragusa, che accompagnerà il pubblico in questo viaggio di memoria, territorio e passione culinaria.
Per consultare il programma completo epotere prendere parte alla Cena di Gala, aperta a tutti, andate sulla pagina facebook Lady Chef Regione Sicilia
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