Cultura
L’agnello protagonista delle tavole pasquali
L’usanza di mangiare la carne di agnello il giorno di Pasqua è una delle tradizioni gastronomiche più discusse, ed è ormai seguita a prescindere dalle credenze religiose. Per capire la sua origine e chi furono i primi a introdurre la carne d’agnello tra i piatti tipici pasquali ci viene incontro l’Antico Testamento, che ci spiega come tale consuetudine affondi le sue radici nei rituali sacrificali dell’ebraismo.
Così scrive Mosè nel Libro XII dell’Esodo: “Parlate a tutta la raunanza d’Israele, e dite: Il decimo giorno di questo mese, prenda ognuno un agnello per famiglia, un agnello per casa; […] Lo serberete fino al quattordicesimo giorno di questo mese, e tutta la raunanza d’Israele, congregata, lo immolerà sull’imbrunire. […] E se ne mangi la carne in quella notte; si mangi arrostita al fuoco, con pane senza lievito e con dell’erbe amare. […] E mangiatelo in questa maniera: coi vostri fianchi cinti, coi vostri calzari ai piedi e col vostro bastone in mano; e mangiatelo in fretta: è la Pasqua dell’Eterno.” Sono proprio questi versetti a rivelarci che la festa della Pasqua ebraica fu voluta da Mosè per celebrare la liberazione del popolo dalla schiavitù in Egitto. In questo contesto, la tradizione di consumare l’agnello si rifaceva al sangue dell’agnello adoperato per segnare gli stipiti delle porte dei prigionieri ebrei e proteggere così i primogeniti, minacciati di morte come previsto dalla decima piaga d’Egitto. Per l’ebraismo, dunque, l’agnello aveva un significato simbolico, e doveva essere offerto il giorno 14 del mese ebraico di Nisan; in quella stessa notte andava consumato il sacrificio di Pesach, che in ebraico significa appunto Pasqua.
Oggi gli Ebrei festeggiano la Pasqua rispettando le stesse tradizioni di duemila anni fa. Insieme all’agnello arrostito intero, vengono serviti dei cibi dalla forte valenza simbolica: le erbe amare, in memoria della sofferenza del popolo ebraico, le erbe rosse, un uovo che rappresenta il lutto e la salsa charoseth, usata dagli schiavi in Egitto e ideale per intingervi il pane azzimo.
Per quanto riguarda la Pasqua cristiana, essa fu istituita dall’imperatore Costantino I con il Concilio di Nicea nel 325 d.C. Egli considerava il Cristianesimo uno strumento perfetto per tenere in piedi il suo Impero, e fece in modo di diffondere il pensiero che tutti gli esseri umani sono fratelli, come insegnato dalla religione stessa. Fu proprio il concilio ecumenico niceno a stabilire la natura divina di Gesù Cristo e a introdurre la celebrazione della Pasqua.
Una delle caratteristiche che accomuna la Pasqua ebraica e quella cristiana è rappresentata proprio dal ruolo dell’agnello, per entrambe simbolo di purezza e della fragilità della vita. Nel Nuovo Testamento la figura di Gesù si fonde con quella dell’agnello, e difatti nel suo Vangelo Giovanni ce lo presenta così: “Ecco l’Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo!” (1,29). Con queste parole l’evangelista profetizza il destino di Gesù, il suo ruolo di agnello gentile, mite, innocente e puro, che si immolerà per la salvezza dell’umanità.
Secondo la tradizione cristiana, molti credenti celebrano la morte e la Resurrezione di Cristo cibandosi della carne di un agnello sacrificato, ma in realtà nei Vangeli non sono menzionati sacrifici rituali che giustifichino l’uccisione di questo animale, e dunque il consumo di questa carne assume un significato del tutto diverso. Da sempre l’agnello è la vittima sacrificale più pura e più bella, e alla base del suo simbolismo nel cristianesimo ci sono caratteristiche come l’innocenza. Poiché, come ricordato da Giovanni, l’agnello è considerato il corpo di Cristo, per i Cristiani mangiare la carne di questo animale a Pasqua rappresenta un modo per ricevere dentro di sé Gesù e il Suo sacrificio.
Senza dubbio, la Pasqua ebraica può essere definita una Pasqua di liberazione, mentre quella cristiana è una Pasqua di resurrezione. Nonostante questa divergenza di base, oltre all’importanza del ruolo dell’agnello per entrambe, c’è un altro anello di congiunzione tra le due, ovvero la dimensione temporale. Non è un caso, difatti, che Gesù muoia nel giorno che precede la Pasqua ebraica, momento esatto in cui l’agnello veniva immolato, come prescritto da Mosè nel citato Libro dell’Esodo.
Nicoletta Natoli
Cultura
Pantelleria, inaugurato il busto a dr. Zurzolo tra gente commossa, riconoscente e affiatata
L’opera è stata realizzata dal M° Michele Cossyro
Si è svolta ieri, 7 dicembre 2025, la cerimonia di scopertura del busto dedicato al compianto dottor Michele Zurzolo.
In una silenziosa Piazza Perugia, le gente arrivava quasi in punta di piedi, per non disturbare un momento che sarebbe stato prezioso per quel sito e per la comunità pantesca tutta.
Il Sindaco Fabrizio D’Ancona ha aperto la celebrazione annunciando diversi interventi tra cui quello di Maria Casano, che ha promosso l’idea, quello della moglie Anna Maria Brignone, delle due nipoti.
“Il Dottore Michele Zurzolo, nel corso della sua vita professionale, si è dedicato anima e corpo a tutta questa comunità e oserei dire anche a tutta la cittadinanza di Pantelleria – Ha esordito il primo cittadino – Ma molti di voi hanno avuto anche la possibilità di conoscere un amico, una persona che ha fatto della sua professione una storia di vita. Lui era una persona di altri tempi e lo ha dimostrato. Abbiamo ritenuto come di regola accade quando una persona si contraddistingue in questa vita terrena per le sue attività, per le sue azioni, per le sue gesta, di ricordarlo in una maniera particolare. Abbiamo deciso di fare un busto commemorativo e di posizionarlo in questa piazza Perugia che è sostanzialmente il cuore di questa contrada.”
Di poi i ringraziamenti alla giunta comunale e, in modo particolare, ai consiglieri Giuseppe Maddalena e Nadia Ferrandes che hanno perorato il progetto, fino al suo completamento.
Così, dopo i toccanti pensieri dei familiari del dr. Zurzolo, l’intervento di Michele Cossyro. L’artista che ha portato il nome di Pantelleria nel mondo con le sue opere ha ben accolto l’invito a realizzare la richiesta, facendo una vera copia non solo delle sembianze, ma anche dell’espressione del medico. Realizzando un basamento singolare, in pietra lavica, ha poi come proseguito l’opera con il busto di bronzo, adesso lucido e liscio.
Tra i presenti anche il presidente del Consiglio Comunale, Giuseppe Spata, diversi politici, i presidenti dei circoli e di alcune associazioni importanti, tutti testimoni della benevolenza, dell’umiltà, della nobiltà di un uomo coraggioso, che metteva il paziente sopra ogni altra esigenza e pensiero, elargendo diagnosi sempre precise e puntuali e mai sbagliate, nonostante la strumentazione dell’epoca, a Pantelleria.
Va ricordato, non in ultimo, che il Dr. Zurzolo era un grande studioso originario della Calabria, eppure, egli aveva eletto Pantelleria come sede della sua dimora e del suo lavoro, dove ha affrontato vita e professione sempre con un immancabile e inestimabile sorriso bonario e rassicurante.
La toccante cerimonia si è conclusa con la benedizione di Don Ramses.
Cultura
Pantelleria, oggi presentazione del libro “Le note stonate” di Antonino Maggiore
Questo pomeriggio, 7 dicembre 2025, dalle ore 16.30, presso i noti locali del Circolo Ogigia di Pantelleria Centro, si terrà la presentazione del libro “Le note stonate” di Antonino Maggiore.
Ad affiancare l’autore, Franca Zona e Giovanna Drago, apprezzate donne di cultura, che si alterneranno in una intervista conoscitiva del libro.
Antonino Maggiore, classe 1982, è un docente di musica presso la scuola primaria di Pantelleria, dove unisce rigore e creatività, nel quotidiano rapporto con l’infanzia.
Lo scrittore pantesco non è alla sua prima opera. Negli anni ha già pubblicato due raccolte poetiche: “Niente di importante” e una “Penna x amico“, grazie alle quali ha ricevuto diversi importanti riconoscimenti.
“Le note strane” è un romanzo autobiografico: in viaggio intimistico tra fragilità ed ironia, attraversando il confine spesso sottile tra disperazione e gioia, risa e pianto.
Con il delicato contributo musicale di Maria Bernardo, si profila un piacevole pomeriggio letterario, al caldo e tra “degustatori” di libri.
L’ingresso è libero
Cultura
I racconti del vecchio marinaio di Pantelleria: Il rito antico della dragunera
Quel giorno lasciai gli scogli di San Leonardo più presto del solito, mentre i miei amici erano ancora a mollo a mare, in un’acqua trasparente e azzurrina come solo il mare di Pantelleria sa esserlo. Mi soffermai ancora una volta a leggere le scritte multicolori che rendevano meno triste il vecchio bunker di cemento armato della seconda guerra mondiale. L’amore di sempre: “ti voglio bene, “un cuore solo”, “ti amerò per sempre” precedute da un nome femminile e tante altre scritte, eredità amorose di generazioni di giovani panteschi. Una però faceva a pugni con tutte le altre, “Mariuccia buttana”. Doveva essere stato davvero un brutto tradimento, per bollarlo con un marchio di fuoco e per tramandarlo così ai posteri.
Giunsi sulla banchina e lo vidi seduto sulla solita bitta di fronte al castello, la nuvola azzurrina del fumo della sua pipa gli conferiva una strana aureola di mistero. Avevo deciso di porgli alcune domande, ma appena mi vide cominciò a parlare con voce arrochita dal tabacco e dalla salsedine. “Il veliero Madonna di Trapani era un vero e proprio gioiello della marineria pantesca. Due alberi, bompresso lungo come una lancia, vele latine che sapevano piegarsi al vento, ma non alla paura. Patrun Vitu, il suo comandante, era un uomo di mare e di silenzi infiniti, con le mani dure come la nostra pietra lavica e gli occhi di un verde misterioso, che avevano visto tempeste e miracoli. Nelle sue mani il timone seguiva docilmente l’invisibile linea della rotta fissata.
Quel giorno, ero ancora picciotto ‘i varca, avevamo da diverse ore passatu l’isola di Ustica e puntavamo, con tutte le vele spiegate su Trapani, fermarci qui la notte e il giorno seguente tornare a Pantiddraria, dove dovevamo sbarcare delle merci comprate a Napoli. Il mar Tirreno sembrava quieto e il vento amico, ma ‘ogni marinaio sa che “Cu ventu e cu mari nun si fa cuntrattu” (Col vento e col mare non si fa contratto). Così all’improvviso il cielo cambiò.
Una linea nera si stese sull’orizzonte, e il vento cadde morto di colpo. I marinai si guardarono l’un l’altro muti e attoniti. Il capitano Vito salì sul ponte e scrutò quel cielo nerastro e la vide: una dragunera (tromba marina), la maledizione antica e rabbiosa per chi va per mare. Essa, sottile e affilata, scendeva dal cielo come il dito di dio marino irato, girando vorticosamente sull’acqua.
Il nostromo Turi colse l’ansia e il timore degli altri uomini dell’equipaggio e chiese a patrun Vitu di virare. Ma Vito no, non solo perché la cosa era impossibile per mancanza di vento, ma perché egli era uomo che accettava intrepido le sfide in mare. Lui conosceva lu ritu anticu, lo aveva visto fare
da suo nonno e da suo padre prima di lui. Aprì il baule sotto il timone e ne trasse un coltello d’ossidiana, nero come la notte e affilato come il silenzio che precede la burrasca. Poi disse deciso “Mantenete la rotta, non si fugge davanti alla dragunera. Si tagghia”.
Si diresse a prua e la sua figura alta e possente sembrò dominare le onde. Il vento intanto aveva ripreso a soffiare forte e impetuoso che a momenti gli strappava il berretto. La dragunera si avvicinava, ululando conne una magara. Vito attese, fermo, come nu parrinu davanti all’artari. Quando la coda della tromba marina fu a portata, egli disse vecchie parole che non si potevano intendere, poi tracciò con il coltello d’ossidiana una grande croce nell’aria e recitò a voce alta questa preghiera:
Nniputenza di lu Patri,
Sapienza di lu Figghiiu,
pi virtù di lu Spiritu Santu
e pi nnomu di Maria
sta cuda tagghiata sia
Un suono sordo, come un lamento, si levò dal mare. La vorticosa colonna d’acqua si dissolse e il cielo si aprì all’azzurro. Tutti noi marinai, increduli, guardavamo ammirati e a un tempo intimoriti il capitano come si guarda un uomo che ha parlato allora allora con gli spiriti. Vito tornò al timone, rimise il coltello di ossidiana nel baule e disse solo: “Adesso a casa”. Al tramonto del giorno dopo Pantelleria ci apparve all’orizzonte, nera e fiera e materna. Il Madonna di Trapani, come sempre, entrò in velocità nello stretto passaggio che dava al porto vecchio. Solo capitan Vito e qualche altro patrun si potevano permettere di sfidare la scogliera cartaginese semisommersa.
La voce del subitaneo taglio della dragunera si sparse, in un battibaleno, in tutte le contrade dell’isola e da quel giorno ogni marinaio pantesco che incrociava patrun Vitu lo salutava con rispetto misto ad ammirazione. Perché non tutti sanno tagghiare la coda a una tromba marina. E soprattutto non tutti hanno il coraggio di farlo”.
Il vecchio marinaio si tacque definitivamente.
Girò le spalle e si mise a guardare, assorto, il mare
come aspettasse l’arrivo di qualcuno, intanto la nuvola azzurrina del fumo della pipa, che lo
avvolgeva in tenui volute, gli conferiva un certo non so che di misterioso.
Orazio Ferrara

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