Cultura
Panteschi in Tunisia / 4 Il nazionalista Corradini e i Figli di Pantelleria
Enrico Corradini fu il massimo esponente del nazionalismo italiano agli inizi del Novecento. Nel 1910 organizzò il primo Congresso Nazionalista a Firenze, dal quale nacque l’Associazione Nazionalista Italiana, divenendone il primo segretario.
L’Associazione si dotò di una sua propria
organizzazione paramilitare, i cui aderenti, per il colore delle camicie indossate, vennero chiamate
“Camicie Azzurre”.
Il Corradini non soltanto con la parola, ma soprattutto con gli scritti, diffondeva le sue idee di una
“Grande Italia”, che, al pari delle altre grandi nazioni europee, doveva necessariamente avere e
difendere le sue colonie in terra d’Africa.. Ciò lo portava a frequenti viaggi, dalla Tunisia alla Libia,
per incontrare le numerose comunità italiane colà stanziate da tempo.
Dal suo libro “Sopra le vie del nuovo impero”, edito dai Fratelli Treves in Milano nell’anno 1912,
riproponiamo alcune pagine tratte dal capitolo “I Figli di Pantelleria”. Ma prima occorre fare delle
opportune precisazioni. Il Corradini a volte ha usato termini, che, al primo impatto, possono
sembrare pesanti, dispregiativi quali “rozzi”, “irsuti” e altri ancora. Ma nel suo immaginifico egli
amava pensava quei coloni italiani al pari dei rozzi pionieri che conquistarono il West o dei rudi
legionari, fondatori di colonie nel solco dell’antica tradizione romana. Singolare poi la frase che
conia per Pantelleria “prolifica nella sincerità della vita primitiva” a significare e a cantare la forza
del sangue di quella stirpe isolana.
“Visitai Bu Ficha, Reyville nell’Enfida, fertilissima terra, quasi tutta messa in coltura dal lavoro
italiano; visitai Bu Arkoub, una conca verde di grano e d’orzo tra leggiere colline, e poi risalendo su
fui a Nabeul circondata di giardini d’aranci e di campi d’ulivi, e alla Kelibia che biancheggia sotto il
Capo Bon.
Tutta questa regione, e specialmente l’Enfida, è ripiena d’italiani, e non d’italiani di tutta la nostra Italia, e nemmeno della grande isola vicina, ma d’una sola isoletta più vicina ancora, di Pantelleria. La costa orientale della Tunisia è quest’altra sponda della piccolissima Pantelleria. L’isoletta prolificò e le sue generazioni una dopo l’altra passarono in barca il breve mare e prolificarono ancora sulla nuova terra promessa.
Ed ora Reyville è un paese tutto d’italiani, e vi fa meraviglia di trovare che hanno quasi tutti gli stessi tre o quattro casati: furono poche famiglie capostipiti che si moltiplicarono. Vi abita una sola famiglia francese, quella del maestro elementare. Bu Ficha ha una popolazione metà araba e metà italiana con cinque o sei francesi soltanto, impiegati del governo.
Poiché la piccola Pantelleria fa per una zolla di terra che trova, ciò che la grande Francia troppo
ricca, troppo bisognosa di benessere, troppo carica della sua civiltà estrema e della sua corruzione,
non farebbe ormai più nemmeno per l’eredità dei cinque continenti: prolifica nella sincerità della
vita primitiva.
Vidi quei rozzi pantellereschi in mezzo alle loro vigne nuove, per le pianure che scendono sul
paradisiaco golfo di Hammamet su cui già splendeva la primavera. C’era fra terra e cielo una novità
che si respirava e si vedeva; c’erano l’aria e la luce e la gioia, la felicità e la fecondità d’una nuova
terra promessa conquistata allora allora. Conobbi molti di quei pantellereschi irsuti e quasi negri che
una volta nell’isola natia, o essi medesimi, o i loro padri, o i padri de’ padri, eran gente di mare e
poi avevano emigrato e s’eran convertiti in industriosi trasformatori di terre e in costruttori di
prosperi villaggi.
Ne conobbi uno, già uomo di vela e di remo, approdato 25 anni fa alla spiaggia deserta dove ora sorge Reyville, con un suo fratello, nella sua barca paterna. I due giovani giunti al tramonto trassero la barca in secco, vi dormiron dentro la notte, e il giorno dopo adocchiarono alcuni ettari di terreno e li comprarono, forse da quella stessa Società Franco-Africana, se c’era allora, che in quella regione rappresenta soltanto la conquista del denaro dinanzi agli italiani che rappresentano la conquista del lavoro e della specie. Ora i due fratelli posseggono diecine e diecine d’ettari floridi di vigne. Un altro pantelleresco possiede 1200 ettari, e giunse nell’Enfida con 120 lire soltanto, 25 anni fa, fece il panettiere e non essendo affatto muratore, da se stesso si costruì la sua prima casa. Ma questi italiani si ricordano dell’isoletta natia…. ”.
Il nazionalista Corradini non ha dubbio alcuno, saranno proprio questi duri coloni che daranno vita al “nuovo impero”, da lui auspicato e propagandato.
4 – fine
Orazio Ferrara
Ambiente
Pantelleria, vendemmia 2025: i risultati tra siccità pregressa e peronospera
Soddisfacente la vendemmia 2025. Dati alla mano
Ogni anno teniamo sott’occhio quella che una eccellenza indiscussa di Pantelleria: la viticultura.
Grazie a questa pratica di agricoltura decisamente eroica anche ai nostri tempi, l’isola ha conquistato uno spazio nei patrimoni dell’umanità, per cui l‘UNESCO ha conferito, lo ricordiamo, il riconoscimento proprio per la vite ad alberello.
Quest’anno abbiamo voluto fare un approfondimento, con una intervista, viste le recenti problematiche ambientali. Abbiamo contattato, all’uopo, Giovanni Bonomo, agricoltore eroico soprattutto per la passione che mette nel suo lavoro. Solerte, studioso, conosce i nomi latini di tutti o buona parte i parassiti che aggrediscono la vite, ma anche i capperi e altre colture importanti nella nostra economia. Con quel suo fare un pò romantico e un pò nostalgico, si sofferma ad analizzare soluzioni possibili per arginare problematiche simili, anche in modo sostenibile, si veda la conferenza che si terrà il 13 novembre prossimo e di cui parleremo in questo articolo.
E così, esordiamo: Signor Bonomo, com’è andata la vendemmia di quest’anno? “Partiamo dalla siccità dell’anno scorso che ha portato una certa sofferenza alle piante. Quest’anno invece è piovuto circa 600 mm, quindi un po’ d’acqua è entrata nel terreno, però le piante venivano da un periodo di indebolimento, in cui la vendemmia è stata pessima.
Quest’anno però le viti, queste viti che hanno piantato i nostri antenati, che le hanno scelte fondamentalmente molti migliaia di anni fa, potendo risalire sino ai fenici, perchè lo zibibbo arriva a Pantelleria con i fenici, hanno avuto un buon ristoro grazie appunto all’azione della pioggia. Seppur non sia stata abbastanza generosa.
Ma ciò che ha afflitto quest’anno le piante è stata la peronospera che ha inflitto loro un effetto di “bruciatura”.
Vuole spiegare a chi non è del settore cos’è la peronospera? “La peronospera, è un parassita, venuto dall’America, come anche lo Oidio, che in Italia si chiama malaria. Esso si riproduce, si replica, e alla fine le foglie tenere e i grappoli teneri che vengono colpite restano come “bruciate”. L’intera isola ha sofferto di questo “attacco”.
Siamo a novembre, la vendemmia ormai è arrivata quasi al termine. A Pantelleria si fanno più raccolti, ce li vuole spiegare? “Sì, oramai l’abbiamo terminata. La prima raccolta si fa all’incirca ad agosto, nelle zone troppo veloci, partendo dalla scogliera con le uve primizie.
Queste primizie, una volta partivano per fare le cosiddette gabbiette ed essere distribuite come uva da tavola. Fatta questa prima raccolta, via via si risale di quota.”
Quali sono i vitigni della tradizione pantesca? “In gran parte è lo zibibbo, poi i panteschi avevano, un tempo per uso personale, il catarrato, il nero nostrale l’insolia, il garignano e altri vitigni secondari. Però ripeto, una volta questi coltivati per uso personale, l’uva che andava alla vendita era lo zibibbo.
“Questo perchè, in genere, l’agricoltore pantesco non gradisce tanto lo zibibbo, specie il vino dalla prima raccolta che sa essere stucchevole.
“Ma, negli ultimi decenni, sono cominciati ad arrivare i Merlot, i Cabernet, i Shiraz e via discorrendo così.”
Soddisfacente la vendemmia 2025. Dati alla mano
La vendemmia di quest’anno ha prodotto un quantitativo e un qualitativo che ci (6:40) lascia soddisfatti? “Come quantitativo si potrebbe fare un po’ di più, se non venissimo da un anno molto arido, come qualità è molto buono. L’uva passa appassisce sempre a quel livello là, quindi poi sono sia i viticoltori con la loro cura, sia gli enologi che fanno dei grandi vini.
Questo quando non piove proprio quando è durante la vendemmia, perchè va a peggiorarsi la qualità dell’uva. Questo, per fortuna non si è verificato in questa annata.
Ho parlato ieri con l’Antonio D’Aietti l’enologo, forse il principale professionista dell’isola, e lui mi ha detto che stanno guardando gli ultimi arrivi delle varie particelle, delle varie produzioni: siamo sui un 22 mila, si potrebbe arrivare a 24-25 mila quintali.”

Tra qualche giorno si darà via a un corso formativo all’avanguardia, che vuole esporre l’isola ad uno step nel progresso dal punto di vista dei trattamenti. Organizzato dal Centro Giamporcaro e nato da una sua idea, cosa può anticiparci? “L’Università di Palermo ci ha indicato questo formatore, il prof. Luigi Rotondo. Il corso si terrà dal 13 al 16 ottobre e durerà 14 ore, distribuite in tre pomeriggi e una mattinata, cercando di conciliare l’orario con le esigenze degli agricoltori, che di solito lavorano sempre e non hanno mai tempo di fare i corsi.
L’idea è di chiarirci le idee sulla peronospora e altri parassiti, formando i lavoratori del settore anche con l’autoproduzione di alcuni preparati, per cercare anche di ridurre l’impatto chimico sulle coltivazioni, che poi la parte anche li mangiamo noi.”
“L’argomento è molto grande, rispetto anche a come si mantengono i terreni, tenendo presente pure l’età delle persone, i mezzi che hanno a disposizione, i guadagni.”
Abbiamo notato che questo corso è considerato talmente valido, che il centro Giamporcaro ha radunato parecchi sostenitori: oltre Comune e Parco Nazionale, il Consorzio Vini Doc, le cantine Pellegrino, Emanuela Bonomo e Donnafugata. Poi Fertigess e Stelmond Bio, ma anche l’Autonoleggio Policardo, seppur non sia del settore. “Infatti, già durante una riunione dello scorso marzo abbiamo invitato diverse aziende, le più importanti hanno risposto, quindi Donna Fugata, Pellegrino, adesso è arrivata anche Emanuela Bonomo. Abbiamo anche come sponsor il Noleggio Policardo che è sempre molto sensibile ad appoggiare iniziative per il territorio. Tutta questa gente ha creduto in questo progetto presentato dal Giamporcaro, con il suo presidente Anna Rita Gabriele. Il Giamporcaro dura da 30 anni con un grande lavoro alle spalle: è uno dei maggiori soggetti attivi dal punto di vista sociale, culturale, il tutto, essendo una associazione no profit lo fa gratuitamente per la comunità di Pantelleria.”
Cultura
Pantelleria, tutti a sgrappolare per il passito. Donne riunite tra uva passa, chiacchiere e cultura
Un gruppo di donne squisitamente tutte pantesche da generazioni, un pomeriggio un pò uggioso, ma tiepido, una tavola ospitale e si va in scena.
Mariuccia, Rosa, Maria, Annita, Anna, Michele e altre signore delle contrade attigue Khamma e Tracino, tra un grappolo e l’altro rievocano ricordi, improvvisano battute, risate, il tutto non con completa leggerezza, bensì con la consapevolezza di stare eseguendo un lavoro dal duplice valore: economico per la produzione del passito e culturale, per il gusto e lo stimolo sempre vivo di mantenere le tradizioni antiche della nostra straordinaria Pantelleria.
Una telefonata e via il gruppo si era creato. Ma anticamente come facevano ad accordarsi con le case distanti, senza mezzi di locomozione? Eppure belli e folti erano i gruppi che si adunavano in una casa per pomeriggio e serate a sgrappolare, tessere mustazzola, e sbucciare uva per la marmellata.
La finalità? Aiutarsi vicendevolmente e ritrovarsi in compagnia.
In tutto questo cast al femminile, l’unica quota azzurra è rappresentata da Michele, un gran signore galante e simpatico, di quelli di altri tempi che, temerariamente è riuscito a reggere e sopportare il chiacchiericcio infinito delle cummari. Le mani sapienti, appiccicose, che sanno di buono.
Il pomeriggio non è bastato poichè il quantitativo di raspi di uva è assai, quindi appuntamento al prima possibile, ma solo dopo aver raccolto le olive, perchè a Pantelleria non ci si ferma mai.
C’è sempre da fare.
Ma cosa accade agli acini appassiti, rigorosamente al sole su stenditoi che rivestono tetti, passiaturi e aie?
Tante le teorie e le modalità, per raggiungere tutti lo stesso risultato, un’eccellenza: il passito di Pantelleria.

Lo zibibbo, una volta essiccato, viene aggiunto al mosto dove riposerà e agirà chimicamente per tre mesi, ma anche su questo ciascun coltivatore ha la sua.
Alcuni, ancora, aggiungono l’uva passa in due o tre soluzioni, step; addirittura aziende che lo producono con 10 aggiunte.
A Pantelleria vi sono varie zone, sia a livello di latitudine che di altitudine e l’esposizione incide sulla dolcezza dell’uva.
Adesso le cantine hanno la tecnologia che permette per esempio di fare un mosto, metterlo in un serbatoio, refrigerarlo quindi a 5-6 gradi per evitare che fermenti e poi quando si ha l’uva secca, si unisce. Partita la fermentazione, questo mosto si ottiene il grado alcolico desiderato.
Si pensi che alcuni passiti sono sui 20 gradi di zucchero, che si ottengono aggiungendo 200 grammi di zibibbo appassito.
Il passito di Pantelleria è un gran prodotto che richiede molto lavoro, sacrificio, le cui origini risalgono all’antichità e che tutto il mondo corteggia.
Cultura
Pantelleria e l’asso degli aerosiluranti a Margana: Guido Robone
Dai primi di maggio e per tutta l’estate dell’anno 1941 fu dislocata all’aeroporto di Margana la 278a Squadriglia Autonoma Aerosiluranti al fine di contrastare i convogli navali britannici
Dai primi di maggio e per tutta l’estate dell’anno 1941 fu dislocata all’aeroporto di Margana la 278a Squadriglia Autonoma Aerosiluranti al fine di contrastare i convogli navali britannici, che andavano a rifornire l’isola di Malta ridotta ormai allo stremo dal lungo assedio delle forze dell’Asse.
La 278a era dotata del velivolo Savoia-Marchetti S.M.79 detto Sparviero, un aereo trimotore ad ala
bassa multiruolo. Si riconosceva immediatamente per la tipica “gobba” dietro l’abitacolo di volo,
gobba in cui alloggiavano mitragliere Breda-SAFAT da 12,7 mm. Per tale tipicità era denominato
dagli avieri scherzosamente anche col nomignolo di “gobbo maledetto”.
Distintivo della 278a:
quattro gatti, due bianchi e due neri. Motto: “Pauci sed semper immites” (Pochi ma sempre
implacabili).
Uno degli S.M.79 di stanza a Margana, identificato con il numero “278-1”, era l’aereo dal tenente
pilota Guido Robone da Como. Il Robone, quand’era ancora un giovane sottotenente, era stato uno
dei pochi ad aver superato la durissima selezione di piloti, che il 25 luglio 1940 a Gorizia erano
andati a costituire il primo “Reparto Sperimentale Aerosilurante”.
Di quel gruppo ristretto faceva
parte anche l’allora tenente Carlo Emanuele Buscaglia, che sarà poi uno dei più famosi aviatori
nella specialità degli aerosiluranti, riuscendo ad affondare oltre 100 000 tonnellate di naviglio
nemico. Le onorificenze concesse al Buscaglia testimoniano del suo indomito valore: Medaglia
d’oro, ben sei Medaglie d’argento, Croce di Ferro di 2ª Classe, due avanzamenti di gradi per merito
di guerra. E scusate se è poco. In molte missioni di guerra Robone fu gregario di Buscaglia
Da sottolineare che anche Buscaglia avrà modo di operare, col suo aerosilurante, da Pantelleria nel
giugno del 1942 al tempo della vittoriosa battaglia di “Mezzo giugno”, in cui la Royal Navy inglese
subirà una pesante e umiliante sconfitta.
Quando il tenente pilota Guido Robone giunse a Margana in quella calda estate del ‘41, lo
precedeva la fama di asso, come confermavano i nastrini azzurri appuntati sul petto di due medaglie
d’argento.
Le medaglie
Motivazione della prima medaglia: “Capo equipaggio di apparecchio aerosilurante già provato per ardimento in molteplici rischiose e difficili azioni di guerra, il giorno 14 ottobre in ore notturne raggiunta una formazione navale nemica,
nonostante violentissima reazione contraerea, la attaccava decisamente riuscendo a colpire un
incrociatore.
Confermava cosi le sue elevate doti di combattente, alto senso del dovere e sprezzo del
pericolo
Cielo del Mediterraneo, 14 ottobre 1940-XVII”.
Motivazione della seconda: “Capo equipaggio di apparecchio aerosilurante, di provato valore guidava il proprio apparecchio all’attacco di formazioni navali nemiche in mare aperto ed in munitissime basi riuscendo a colpire col siluro tre unità.
II giorno 11 gennaio 1941 al rientro da una lunga azione di ricognizione
offensiva condotta in mare aperto con condizioni atmosferiche proibitive, a causa di perdita di
benzina si ritrovava senza carburante lontano dalla base su zona montagnosa. Anziché affidare la
propria salvezza al paracadute, preferiva effettuare un pericolosissimo atterraggio notturno di
fortuna con siluro a bordo riuscendo a portare in salvo l’equipaggio, l’arma e parte del materiale. Nel
nobile tentativo restava ferito.
Cielo del Mediterraneo, 2 novembre 1940-11 gennaio 1941-XIX”.
Dalle motivazioni precedenti si può comprendere bene quale tempra d’uomo e di pilota fosse il
Robone. D’altronde quest’ultimo, al suo arrivo a Pantelleria, era appena reduce da un altro
successo, conseguito nei mari prospicienti l’Africa Settentrionale decollando dal campo di Berka
(Bengasi).
Infatti alle ore 19:25 del precedente 21 aprile 1941, aveva attaccato con la solita
determinazione e con il consueto indomito coraggio una formazione navale britannica, silurando,
malgrado la furiosa contraerea, la petroliera British Lord di 6.000 tonnellate e danneggiandola
gravemente.
Dell’efficacia del siluramento si ebbe poi conferma anche dagli inglesi.
Orazio Ferrara
(1 – continua)
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