Cultura
Un ricordo, una notte al chiarore della luna in Sicilia nei pressi del feudo della baronessa Arezzo
N’JORNU MO NANNU MI VARDAU – E TUTTO SERIU MI CUNTAU UN CUNTU CA TUTTU U SCANTU CA A VIA SINIU RI UNNI A VIA VINUTU – MA NANNU ERA ‘N CRISTIANU TANTU SPERTU CA CUNTINUAU A PARRARI A CORI APERTU – SPIRANNU CA I MALI PINSERI SI PUTIANU ALLUNTANARI E MI RAPISSURU U CIRVIEDDU PI LI COSI RIALI …
Quando mi hanno detto che sarei diventato padre, non trovai altro da fare che pensare a mio padre. E mi guardai pure allo specchio, non mi vergogno a dirlo, per scoprire che di colpo non somigliavo più né a mio padre né a mia madre. Ma a mio nonno. Sì, proprio a lui, a quel povero cristo, alto e austero che il padreterno, in un giorno di negligenza, era “sdirupato” su una vallata, a sud della Sicilia, senza alberi senza fichidindia.
Un pezzo di Sicilia, incagliato tra gli altipiani degli Iblei e le colline antistanti alla riviera, ma che della Sicilia bedda, quella amata e spupazzata dal cinematografo, non aveva proprio nulla. Nemmeno l’orgoglio di avere dato i natali, si dice così, a Salvatore Quasimodo e al Gian Battista Odierna: che erano certamente persone illustri e in quanto tali potevano essere comodamente liquidati, come i baroni, con una levata di coppola e un “voscenza ‘bbenedica”.
Che ne sapevamo noi della letteratura e della matematica, della storia e dei miti, delle verità e degli inganni che avevano attraversato la Sicilia? Certo, la sera, se tu bambino non fossi riuscito proprio a dormire, avresti trovato pur sempre un nonno, un padre, uno zio o comunque un sant’uomo disposto a prenderti sulle ginocchia e a rassicurarti. Ma le favole, le nostre favole, non avevano né la semplicità della parola né la lucentezza del racconto. Erano per lo più trame impastate di “pane e tumazzu”, di sottintesi compiaciuti, di ammiccamenti ruffiani, di complicità innocenti e beffarde.

Telegrammi immaginari, li avrebbe chiamati Francis Scott Fitzgerald. Ma che ne sapeva, mio nonno, de “Il grande Gatsby” e di tutte le altre diavolerie americane? Una sera – avevo forse sei o sette anni – mio nonno vide che tremavo dalla paura. Gli confessai che la maestra ci aveva parlato dei fantasmi e che, parlando parlando, quel pensiero si era ingrottato, nefasto e serpigno, nella mia mente. Per un pronto accomodo, cambiò discorso.
Mi raccontò che lui invece, aveva incontrato banditi e briganti, altro che fantasmi; e che un giorno, lungo la trazzera di Malavita (una località fra Ragusa e Santa Croce Camerina), un nome e un incubo, era stato persino fermato da due picciotti col viso coperto – “infacciolati”, diceva lui – venuti dalla città di Vittoria o giù di lì, ma certamente mandati da quel vicarioto che rispondeva al nome di Salvatore Falcone: sì, proprio lui, il terribile delinquente, il re della mala vita iblea, quello che si era fissato di somigliare a Tyrone Power e che aveva avuto anche il fegato di dettare, prima di morire ammazzato, le poche ma sentite parole da scrivere sulla sua tomba. Due versi con rima baciata: poveri sogni miei alati e muti, come uccelli di bosco siete caduti.

“Vedi, figlio mio, quante avversità e quante male persone? Eppure, sono rimasto sano e pieno di vita”, concludeva. Perché lui, mio nonno, sapeva come allontanare briganti e fantasmi che si avvicinavano alla sua terra della sciumara (terreno vicino al fiume Irminio), terra di pietre e grano duro: bastava andare di notte nel campo di fave, laggiù lungo il fiume, nel feudo della baronessa di Arezzo; bastava camminare quatti quatti lungo i rovi che marcavano il confine, e il sortilegio avrebbe allontanato ogni anima nera.
Una premessa ammaliante che, agli occhi di un bambino, inevitabilmente fiammeggiava di eroismo, di epopea misera e gigante: quale piccolo Sancho Panza non avrebbe seguito, altero e mansueto, quel grande Don Chisciotte? Per quasi un’ora camminammo di notte a cavallo di un mulo baio, lui davanti e io in groppa, alla luce di nuvole chiare. Me ne stavo aggrappato, con le mani e con l’unghia, al suo scapolare verdastro; gli occhi sgranati dall’attesa e dal mistero. Mi veniva da piangere, ma l’avventura non prevedeva né lacrime né singhiozzi. Solo silenzio: perché il rumore avrebbe svegliato i cani e i campieri della baronessa; e a quel punto, buonanotte ai suonatori. Era anche vietato parlare: “Se il mulo è muto, tu perché parli?”. E così, aqquattati e silenti, ci addentrammo nel campo delle fave. Delle fave verdi, quelle col baccello succoso e vellutato. Le cogliemmo a manate. “Mangia, figghiumiu, ché i fantasmi se ne vanno”. “Anche i briganti?”. “Anche i briganti”. E appanzati come non mai, tornammo a riprendere il mulo.

Potrò mai raccontare una favola così – tenera e scellerata – a mia figlia, nata a Comiso (città di Bufalino e di Salvatore Fiume…), e che, per una civetteria del destino, porta lo stesso nome della figlia del mio mito storico Giulio Cesare “Giulia”? Cinquanta e passa anni fa, la notte in cui sazi e stregati tornammo dal campo di fave – era stata una notte di insonnia ribalda e ghibellina – ricordo che mi addormentai serenamente, con la dolcezza dell’infanzia, senza sussulti e senza paure.
Mi rassicurava la memoria di un odore – l’odore dello scapolare verdastro – e di una epopea che, come nell’Ulysses, aveva incrostato di una “scorza salina” la vecchiaia di mio nonno. E me lo conservava giovane come un’anguilla, iridato di squame e di mare, forte e bello come tutti gli eroi. Quale epopea, quali fantasmi, quali odori potrò mai condividere io con mia figlia?
L’altro ieri, era giorno di mercato, ho comprato un sacco bello di fave, ce n’erano a quintalate sui banconi
del Mercato del mercoledì a Ragusa. Mi rosicchiava dentro un filino di nostalgia e, arzillo come non mai,
l’ho portato a casa, pronto per chissà quale orgiastico rito della memoria. Ma non ho invitato, al banchetto,
la mia unica figlia perché sta studiando all’università di Bologna… e sentendola stava già degustando le
piadine romagnole… come siamo distanti anni luce con la Giulia… ma l’amore per la nostra terra è viva in
Lei come in me, e ciò mi rallegra il cuore come quella sera in cui mangiai le fave della baronessa…
Salvatore Battaglia Presidente dell’Accademia delle Prefi
Cultura
Pantelleria, lavori di adeguamento, messa in sicurezza ed efficientamento energetico della palestra della Scuola Media “Dante Alighieri”
Alla cittadinanza, Il Sindaco comunica che l’Amministrazione comunale di Pantelleria ha portato a compimento l’iter amministrativo e progettuale necessario per il recupero e la piena rifunzionalizzazione della palestra della Scuola Media “Dante Alighieri”, struttura da tempo inagibile e fortemente attesa dalla comunità scolastica dell’isola. Il Sindaco comunica che l’intervento rientra in una più ampia strategia di riqualificazione dell’edilizia scolastica, con l’obiettivo prioritario di garantire sicurezza, accessibilità, sostenibilità energetica e qualità degli spazi destinati alle attività formative e sportive.
Il progetto prevede opere di adeguamento strutturale e funzionale, la messa in sicurezza dell’edificio, il miglioramento delle prestazioni energetiche attraverso l’installazione di impianti moderni e l’utilizzo di fonti rinnovabili, nonché il completo ripristino della fruibilità della palestra per studenti, associazioni sportive e iniziative collettive. Il Sindaco comunica che l’intervento consentirà di restituire alla cittadinanza una struttura fondamentale per la crescita educativa, sociale e sportiva dei giovani di Pantelleria, colmando una carenza che per anni ha inciso negativamente sull’offerta di spazi adeguati alle attività motorie.
L’Amministrazione è consapevole che l’esecuzione dei lavori potrà comportare disagi temporanei; tuttavia, il cronoprogramma è stato definito con l’obiettivo di contenere l’impatto sulle attività scolastiche, con una durata complessiva stimata in circa 14 settimane. L’Amministrazione continuerà a seguire con attenzione tutte le fasi successive, dall’affidamento dei lavori alla loro realizzazione, assicurando trasparenza, rispetto dei tempi e tutela dell’interesse pubblico. Pantelleria guarda avanti, investendo sulle scuole, sulla sicurezza e sul futuro delle nuove generazioni.
Cultura
Il violinista di Solarino Don Paolo Teodoro e le radici di una tradizione di due secoli
La storia nascosta di un paese che ha fatto della musica una firma identitaria
Nel 1827, quando il paese non era ancora Comune, un documento d’archivio rivela la presenza inattesa di un musicista professionista. Da allora Solarino non ha mai smesso di essere una comunità musicale.
Solarino – Nel 1827 il paese non era ancora autonomo e viveva un momento di transizione politica e amministrativa. Eppure, in quell’anno cruciale, emerge un dettaglio sorprendente che permette di leggere la storia locale da una prospettiva nuova. Tra gli atti conservati presso l’Archivio di Stato di Siracusa compare il nome di Don Paolo Teodoro, registrato come violinista.
Un dato che, per l’epoca, spacca in due l’immagine consueta di un borgo rurale fatto solo di agricoltori e artigiani.
Il musicista che rompe gli schemi
Il documento mostra chiaramente che Don Paolo Teodoro non era soltanto un residente rispettato di Solarino. Era un musicista. Un ruolo insolito in un contesto rurale del primo Ottocento, dove la musica raramente compariva nelle registrazioni ufficiali. Teodoro abitava in via Fontana, insieme alla moglie Costantino Eloisa, ma la sua formazione aveva radici ancora più profonde. Da giovane, infatti, era cresciuto in una parte dell’attuale Palazzo Requesens, allora indicato come Piano Palazzo n.2, oggi cuore dell’odierna Piazza del Plebiscito, luogo simbolo della vita sociale solarinese. Una crescita in un ambiente architettonico e culturale privilegiato che spiega – almeno in parte – la precocità di una vocazione musicale riconosciuta persino dagli atti civili borbonici.
Una tradizione musicale che Solarino non ha mai abbandonato
Il caso di Don Paolo Teodoro non è un episodio isolato, ma il primo tassello visibile di una storia più lunga. Perché a differenza di tanti altri centri siciliani, Solarino non ha mai smesso di essere un paese musicale. Bande storiche, maestri locali, scuole di musica, gruppi giovanili, famiglie che tramandano strumenti da generazioni, musicisti nazionali , la musica, qui, non è un accessorio, ma un linguaggio collettivo. E questa continuità testimonia una capacità rara: fare dell’arte una parte della propria identità civile. Non tutte le comunità hanno saputo compiere questa scelta. Molti centri rurali hanno perso nel corso del Novecento le proprie tradizioni culturali, travolti da emigrazione e modernizzazione. Solarino, invece, ha seguito una traiettoria diversa: ha difeso la musica, l’ha fatta propria, l’ha trasformata in patrimonio comune.
Questo è il vero punto di forza del paese. Una maturità culturale che trova le sue prime radici in persone come Don Paolo Teodoro: uomini capaci, già due secoli fa, di portare l’arte dentro la vita quotidiana di una comunità in trasformazione. Oggi, quando strumenti e prove musicali risuonano nelle case, nelle scuole e nelle piazze, è possibile intravedere un filo diretto con quella firma d’archivio del 1827. Solarino continua a distinguersi per il suo fermento artistico. E la storia del violinista Don Paolo Teodoro si rivela allora molto più che una curiosità d’epoca: è l’origine documentata di un percorso identitario che il paese ha scelto di portare avanti con orgoglio. Due secoli dopo, Solarino resta un paese che suona e questa è, senza dubbio, una delle sue vittorie più grandi.
Laura Liistro
Cultura
Elena Pizzuto Antinoro: da Santo Stefano Quisquina alla scena internazionale della ricerca linguistica
Donna siciliana, studiosa di straordinaria competenza e voce autorevole della ricerca italiana, Elena Pizzuto Antinoro è considerata una delle figure più influenti negli studi contemporanei sulla comunicazione e sulle lingue dei segni.
Psicologa, linguista e ricercatrice del Consiglio Nazionale delle Ricerche, ha contribuito in modo determinante al riconoscimento della Lingua dei Segni Italiana (LIS) come sistema linguistico pienamente strutturato, superando visioni riduttive che ne avevano a lungo limitato la comprensione. Il suo percorso accademico si è svolto tra l’Italia e gli Stati Uniti, dove ha approfondito la Lingua dei Segni Americana (ASL) entrando in contatto con metodologie di ricerca all’avanguardia. Questa esperienza internazionale fu decisiva: rientrata in Italia, introdusse nuovi paradigmi analitici che avrebbero innovato radicalmente lo studio della LIS, collocando la ricerca italiana in un dialogo costante con quella mondiale. Caratteristica centrale del suo lavoro fu l’approccio interdisciplinare.
Elena operò a stretto contatto con persone sorde, analizzando i processi cognitivi, le strutture linguistiche e le dinamiche comunicative della lingua visivo-gestuale. Le sue pubblicazioni rappresentano oggi un riferimento fondamentale non solo in Italia, ma anche nel contesto internazionale degli studi sulle lingue dei segni. Tra le iniziative più rilevanti da lei guidate figura VISEL, progetto dedicato allo sviluppo di sistemi di scrittura per la lingua dei segni e alla definizione di strumenti didattici innovativi. Un contributo che ha ampliato le possibilità di ricerca e di accesso alla comunicazione visiva, rafforzando il ruolo dell’Italia nel panorama scientifico globale. Colleghi e collaboratori ricordano Elena Pizzuto Antinoro come una professionista rigorosa, dotata di una forte integrità etica e di una visione capace di anticipare nuove prospettive. Il silenzioso applauso con cui la comunità sorda l’ha salutata ne sottolinea il profondo impatto umano e scientifico.
Oggi, Elena Pizzuto Antinoro è riconosciuta come una figura chiave della linguistica internazionale e un esempio di eccellenza femminile nel mondo accademico. Siciliana, figlia di Santo Stefano Quisquina, ha portato la sua terra d’origine nei principali centri di ricerca del mondo, lasciando un’eredità destinata a influenzare a lungo gli studi sulla comunicazione e sulle lingue dei segni.
Laura Liistro
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