Cultura
Sulla storia della marineria di Pantelleria / 1ª parte
La storia della marineria pantesca inizia prestissimo, con il preistorico commercio della lucente e
nera ossidiana (ma di questo periodo, che si perde nella notte dei tempi, ignoriamo quasi tutto).
Particolarmente avvincente ed intrigante il tempo dei fasti della splendida marineria dell’antica e
opulenta Cossyra, alleata dei Cartaginesi contro i Romani, e poi l’alto medioevo, in cui il nostro
porto vide i temibili dromoni bizantini e i veloci navigli arabi. Dunque, nel corso dei secoli e fino al
primo cinquantennio del secolo appena trascorso, Pantelleria fu terra di marinai e di abili navigatori.
Pertanto l’isola fu sempre decisamente più marina che terragna, checché ne dicano alcuni
superficiali storici in tempi recenti.
Certo quegli stessi marinai, una volta a terra, furono anche tenaci e laboriosi agricoltori (da
compiere veri e propri miracoli in una terra spesso matrigna), ma ciò è una peculiarità che si
riscontra, per il passato, in tanti altri centri marinareschi, soprattutto le isole, nel bacino del
Mediterraneo.
Una storia tutta da scrivere
La storia della marineria dell’isola di Pantelleria dei secoli passati è ancora in grandissima parte
tutta da scrivere. Bisogna pertanto invogliare i giovani studiosi a scandagliare i ricchi e in gran parte
ancora inesplorati archivi di Trapani, di Mazara, di Palermo. Vi fu un tempo in cui i Panteschi
navigarono per tutto il Mediterraneo, dalle coste del Marocco a quelle dell’Egitto, oltre
naturalmente in tutti i porti delle coste italiane soprattutto del mar Tirreno, facendo lucrosi
commerci ma anche, per il passato, una spietata guerra da corsa contro gli stati barbareschi.
Nel Settecento l’isola ebbe il primato, rispetto alle altre marinerie siciliane e non solo, del rilascio di
patenti da corsa da parte del regio governo. Si può dire che in ogni famiglia pantesca vi sia stato un
comandante o un marinaio di legno corsaro. Incredibile, ma vero.
La guerra del naviglio corsaro pantesco cominciò ben presto
Tralasciando quello dei Catalani, che scelsero Pantelleria come sicura base per le loro scorrerie a volte più piratesche che corsare, già nel
secondo decennio del 1400 ritroviamo all’opera una galeotta di 15 banchi con comandante ed
equipaggio panteschi. Della cosa c’informa un rogito notarile (actum) stipulato in data 2 ottobre
1426 nella città di Messina, allora forse il porto più importante dell’intera Sicilia per via che da lì
partiva una delle principali rotte dell’Italia Meridionale verso l’Outremer ovvero la Terra Santa.
Con tale atto veniva costituita una regolare “società di mare” (un eufemismo per indicare una
società di filibustieri), di cui faceva parte, tra altri, Guglielmo della Turri di Pantelleria, padrone
appunto di una galeotta di 15 banchi.
Nell’atto si stabiliva quale scopo precipuo di esercitare la guerra da corsa in mare contro le navi dei
Saraceni e contro le navi dei nemici e dei ribelli del Regno di Sicilia, allora in signoria di re
Alfonso, V di Aragona e I di Maiorca e di Sicilia. Veniva stabilito inoltre che detta società sarebbe
durata “fino a quando lo vorranno” i contraenti.
Pantelleria porto franco per navi cristiane
Si ritiene che al tempo del citato actum Pantelleria fosse considerata un “porto sicuro” ovvero un
porto franco per le navi cristiane impegnate nella guerra da corsa contro la Barberia e ciò deve
essere durato per più secoli, come sembra confermare un rogito notarile stipulato in Bovalino
(Reggio Calabria) in data 7 giugno 1694 (Indizione II), col quale l’abate don Ferrante Spinelli dei
principi di Tarsia e conti di Bovalino consegnava due feluche lunghe, appena varate e armate di
tutto punto per la guerra da corsa, ai capitani Vito Porzio da Napoli e Biase Maggio da Messina.
La parte di questo rogito che più c’interessa è la seguente: “debbano ammarinare il bastimento o
bastimenti presi ed accompagnarli in porto sicuro, cioè Siracusa, Catania, Trapani o nella
Pantelleria ed ivi lasciarlo con tre o quattro persone per guardia et darne subbita parta nella città di
Messina al signor don Giuseppe Barna et signor Giovanni Giorgio Monti”.
Ancora per tutto il Seicento i “porti sicuri” per i corsari cristiani in Mediterraneo furono quelli di
Sicilia e precisamente Messina, Siracusa, Catania, Trapani e l’isola di Pantelleria. In questi porti
menzionati era consuetudine arruolare i capitani e gli equipaggi delle navi cristiane corsare. Anche
se per Pantelleria esisté anche un rovescio della medaglia, alcuni suoi giovani abitanti, catturati dai
Barbareschi nelle loro non rade scorrerie, finirono tra gli equipaggi delle navi corsare e pirata di
quest’ultimi, qualcuno distinguendosi poi per valore e perizia marinara come Soliman
Pantelleresch, che divenne un famoso ammiraglio della flotta d’Algeri, e Maymuni.
Tornando al citato Actum di Messane del 1426, in quel tempo erano di casa in Pantelleria
Guglielmo della Turri e suo fratello Parisio con la moglie Isolda. Procuratore nell’isola per i della
Turri, durante le loro assenze, era Tommaso de Bonohomine, in alcuni atti detto anche Bonomo o de
Bonomo, come si evince da una transazione, datata 8 maggio 1425, nella quale Thomasius Bonomo
consegnava, per conto di Parisio de la Turri e della di lui moglie Isolda, la somma di 18 fiorini, 4
tarì e 10 grani a tale Antonius Stabili. La somma, probabilmente frutto della vendita di un bottino di
un precedente raid corsaro, veniva poi girata dallo Stabili a Guillelmus de la Turri, fratello del detto
Parisio.
Dai cartari del tempo appare che fin dagli inizi del Quattrocento il castello a mare e il porto di
Pantelleria furono luoghi sicuri per i corsari e i pirati cristiani che infestavano quel tratto di mare
chiamato Canale di Sicilia, depredando le navi di passaggio spesso anche cristiane, ma soprattutto
saccheggiando le coste della Barberia, dove si faceva incetta di schiavi e schiave, assai ben pagati
sui mercati siciliani. A volte queste schiave moresche, in particolare quelle giovanissime e vergini,
raggiungevano cifre astronomiche per quei tempi. Un tipico esempio ci viene offerto da un rogito
notarile, stipulato in Trapani e datato 28 gennaio 1423.
Nell’atto in questione tale Antonio de Liluni, per conto del barone di Pantelleria don Francesco
Bellvis, miles e patrono di galea, versa a Salvo de Costanzo di Trapani la somma di ben 25 once
d’oro per l’acquisto di una schiava saracena di 11 anni di nome Axa, schiava da consegnare poi allo
stesso Bellvis. Non ci si scandalizzi troppo, a quei tempi era normale seguire il costume moresco
anche da parte dei cristiani e quindi sposare (ma non era necessario) e avere rapporti con ragazze
appena uscite dalla pubertà o appena sotto. Per farsi un’idea del prezzo pagato, basti pensare che
con un’oncia d’oro si poteva comprare una casa o un intero vigneto o un vasto castagneto.
A protezione delle galee e galeotte dei corsari panteschi faceva buona guardia, con i suoi cannoni, il
castello a mare di Pantelleria. La fortificazione con circa 30 uomini di guarnigione, nei primi
decenni del Quattrocento, costava al Regio Erario circa 377 once d’oro, tarì 23 e grani 16 (per la
precisione nell’anno 1416). La guarnigione poteva contare su un castellano, un vice-castellano, un
cappellano e 25 militi. Benché il feudatario dell’isola fosse nominalmente il barone Francesco
Bellvis, per lunghi periodi i padroni di fatto furono gli intraprendenti e spietati corsari De Nava,
soprattutto Gonsalvo e poi suo figlio Alvaro, che con le loro galee seminarono il terrore nei paesi
rivieraschi del Canale.
Abili scorridori dei mari membri della famiglia d’Ancona
In quel torno di tempo acquistarono fama di abili scorridori dei mari anche i membri della famiglia
pantesca de Ancona (D’Ancona).
Il più noto fu il corsaro Giovanni de Anquona. Negli anni 1407
/1408 Simone de Ancona e Antonio Guantes, ambedue di Pantelleria, con le loro galeotte, oltre alla
guerra da corsa, trasportavano grano da Sciacca all’isola per assicurare i rifornimenti alimentari alla
popolazione. Simone operava anche sulla tratta Trapani Pantelleria e viceversa per il trasporto e il
commercio di beni vari. Poi c’erano i fratelli Bartolomeo e Antonio. Bartolomeo comandava una
galeotta il cui patrono era Antonio Desguanechs, appartenente ad una famiglia di nobili cavalieri
allora in forte ascesa di potenza nell’isola di Malta. Antonio, procuratore dei Bellvis a Palermo, nel
1439, mentre navigava su una nave fiorentina alla volta di Marsiglia, venne catturato, forse per
ritorsione di qualche sua precedente scorreria, da una galea provenzale. Venne liberato lo stesso
anno, probabilmente dietro pagamento di un forte riscatto.
Che la Curia Regia di Palermo desse ordine di rifornire, a sue spese, regolarmente le navi corsare,
che da Pantelleria predavano nel Canale di Sicilia, non era un mistero per nessuno. Alcuni
documenti coevi riguardano una delle due galee di cui erano patroni i Bellvis. Con atto, rogato in
Trapani in data 25 agosto 1435, il valenciano Aloisius Peris, capitano di una galea di proprietà del
“dominus” Francesco de Bellvis, dichiarava di aver ricevuto da Melchion de Carissima, vicesecreto
di Trapani, 185 cantari e 25 rotoli di biscotto. Il successivo 6 settembre di quell’anno lo stesso Peris
dichiarava di aver ricevuto sempre dal de Carissima altri 25 cantari e 43 rotoli di biscotto e di averli
caricati sulla galea dei Bellvis, ormeggiata nel porto di Trapani. Questa volta il carico era stato fatto
per le “necessità” della Regia Curia.
Non era nativo di Pantelleria, ma tra il 1486 e il 1492 il porto di quest’isola divenne il covo
preferito della sua nave corsara, con cui scorreva il mare del Canale di Sicilia in caccia di legni
barbareschi, depredando il carico e vendendo come schiavi gli equipaggi catturati. Non disdegnando
però di tanto in tanto di abbordare anche navigli cristiani, facendo poi man bassa dei carichi
trasportati. Parliamo di frate Giovanni Domingo dell'Ordine di San Giovanni Gerosolimitano
(Ordine di Rodi, poi di Malta). Le navi di quest’Ordine dette appunto “della Religione”
rappresentavano una specie di polizia del mare di quel tempo contro i corsari turchi, quest’ultimi
una vera piaga per le nostre coste e le nostre isole.
Comunque il “vizietto” di depredare anche navi cristiane doveva causargli prima o poi delle grosse
grane e così avvenne. Nell’anno 1487 una nave, carica di vettovaglie per gli abitanti dell’isola di
Pantelleria e di proprietà dei mercanti Gaspare Balistreri e Ferrando Valdes, che stava entrando in
porto venne abbordata e catturata dal corsaro Domingo. Fu la goccia che fece traboccare il vaso, la
popolazione, guidata dai giurati dell’isola, protestò tumultuosamente per tema di restare affamata.
Uno dei giurati più influenti, Antonio Brignuni (Brignone), venne addirittura arrestato dal
castellano, il quale prendeva naturalmente le parti del suo socio, rivelatosi in questo episodio più
pirata che corsaro. Ma la popolazione pantesca non si diede per vinta e scrisse una lunga e
circostanziata denuncia dei fatti accaduti alla Reale Cancelleria di re Ferdinando il Cattolico in
Palermo. Fu ordinata quindi una regia inchiesta, che appurò che effettivamente c’erano state
ingiustizie e depredazioni, ma, come spesso accade quando in gioco ci sono “pezzi da novanta”, le
cose andarono per le lunghe e alla fine tutto s’insabbiò.
Orazio Ferrara
Foto: Nave mediterranea sec. XV / XVI
Ambiente
Pantelleria, vendemmia 2025: i risultati tra siccità pregressa e peronospera
Soddisfacente la vendemmia 2025. Dati alla mano
Ogni anno teniamo sott’occhio quella che una eccellenza indiscussa di Pantelleria: la viticultura.
Grazie a questa pratica di agricoltura decisamente eroica anche ai nostri tempi, l’isola ha conquistato uno spazio nei patrimoni dell’umanità, per cui l‘UNESCO ha conferito, lo ricordiamo, il riconoscimento proprio per la vite ad alberello.
Quest’anno abbiamo voluto fare un approfondimento, con una intervista, viste le recenti problematiche ambientali. Abbiamo contattato, all’uopo, Giovanni Bonomo, agricoltore eroico soprattutto per la passione che mette nel suo lavoro. Solerte, studioso, conosce i nomi latini di tutti o buona parte i parassiti che aggrediscono la vite, ma anche i capperi e altre colture importanti nella nostra economia. Con quel suo fare un pò romantico e un pò nostalgico, si sofferma ad analizzare soluzioni possibili per arginare problematiche simili, anche in modo sostenibile, si veda la conferenza che si terrà il 13 novembre prossimo e di cui parleremo in questo articolo.
E così, esordiamo: Signor Bonomo, com’è andata la vendemmia di quest’anno? “Partiamo dalla siccità dell’anno scorso che ha portato una certa sofferenza alle piante. Quest’anno invece è piovuto circa 600 mm, quindi un po’ d’acqua è entrata nel terreno, però le piante venivano da un periodo di indebolimento, in cui la vendemmia è stata pessima.
Quest’anno però le viti, queste viti che hanno piantato i nostri antenati, che le hanno scelte fondamentalmente molti migliaia di anni fa, potendo risalire sino ai fenici, perchè lo zibibbo arriva a Pantelleria con i fenici, hanno avuto un buon ristoro grazie appunto all’azione della pioggia. Seppur non sia stata abbastanza generosa.
Ma ciò che ha afflitto quest’anno le piante è stata la peronospera che ha inflitto loro un effetto di “bruciatura”.
Vuole spiegare a chi non è del settore cos’è la peronospera? “La peronospera, è un parassita, venuto dall’America, come anche lo Oidio, che in Italia si chiama malaria. Esso si riproduce, si replica, e alla fine le foglie tenere e i grappoli teneri che vengono colpite restano come “bruciate”. L’intera isola ha sofferto di questo “attacco”.
Siamo a novembre, la vendemmia ormai è arrivata quasi al termine. A Pantelleria si fanno più raccolti, ce li vuole spiegare? “Sì, oramai l’abbiamo terminata. La prima raccolta si fa all’incirca ad agosto, nelle zone troppo veloci, partendo dalla scogliera con le uve primizie.
Queste primizie, una volta partivano per fare le cosiddette gabbiette ed essere distribuite come uva da tavola. Fatta questa prima raccolta, via via si risale di quota.”
Quali sono i vitigni della tradizione pantesca? “In gran parte è lo zibibbo, poi i panteschi avevano, un tempo per uso personale, il catarrato, il nero nostrale l’insolia, il garignano e altri vitigni secondari. Però ripeto, una volta questi coltivati per uso personale, l’uva che andava alla vendita era lo zibibbo.
“Questo perchè, in genere, l’agricoltore pantesco non gradisce tanto lo zibibbo, specie il vino dalla prima raccolta che sa essere stucchevole.
“Ma, negli ultimi decenni, sono cominciati ad arrivare i Merlot, i Cabernet, i Shiraz e via discorrendo così.”
Soddisfacente la vendemmia 2025. Dati alla mano
La vendemmia di quest’anno ha prodotto un quantitativo e un qualitativo che ci (6:40) lascia soddisfatti? “Come quantitativo si potrebbe fare un po’ di più, se non venissimo da un anno molto arido, come qualità è molto buono. L’uva passa appassisce sempre a quel livello là, quindi poi sono sia i viticoltori con la loro cura, sia gli enologi che fanno dei grandi vini.
Questo quando non piove proprio quando è durante la vendemmia, perchè va a peggiorarsi la qualità dell’uva. Questo, per fortuna non si è verificato in questa annata.
Ho parlato ieri con l’Antonio D’Aietti l’enologo, forse il principale professionista dell’isola, e lui mi ha detto che stanno guardando gli ultimi arrivi delle varie particelle, delle varie produzioni: siamo sui un 22 mila, si potrebbe arrivare a 24-25 mila quintali.”

Tra qualche giorno si darà via a un corso formativo all’avanguardia, che vuole esporre l’isola ad uno step nel progresso dal punto di vista dei trattamenti. Organizzato dal Centro Giamporcaro e nato da una sua idea, cosa può anticiparci? “L’Università di Palermo ci ha indicato questo formatore, il prof. Luigi Rotondo. Il corso si terrà dal 13 al 16 ottobre e durerà 14 ore, distribuite in tre pomeriggi e una mattinata, cercando di conciliare l’orario con le esigenze degli agricoltori, che di solito lavorano sempre e non hanno mai tempo di fare i corsi.
L’idea è di chiarirci le idee sulla peronospora e altri parassiti, formando i lavoratori del settore anche con l’autoproduzione di alcuni preparati, per cercare anche di ridurre l’impatto chimico sulle coltivazioni, che poi la parte anche li mangiamo noi.”
“L’argomento è molto grande, rispetto anche a come si mantengono i terreni, tenendo presente pure l’età delle persone, i mezzi che hanno a disposizione, i guadagni.”
Abbiamo notato che questo corso è considerato talmente valido, che il centro Giamporcaro ha radunato parecchi sostenitori: oltre Comune e Parco Nazionale, il Consorzio Vini Doc, le cantine Pellegrino, Emanuela Bonomo e Donnafugata. Poi Fertigess e Stelmond Bio, ma anche l’Autonoleggio Policardo, seppur non sia del settore. “Infatti, già durante una riunione dello scorso marzo abbiamo invitato diverse aziende, le più importanti hanno risposto, quindi Donna Fugata, Pellegrino, adesso è arrivata anche Emanuela Bonomo. Abbiamo anche come sponsor il Noleggio Policardo che è sempre molto sensibile ad appoggiare iniziative per il territorio. Tutta questa gente ha creduto in questo progetto presentato dal Giamporcaro, con il suo presidente Anna Rita Gabriele. Il Giamporcaro dura da 30 anni con un grande lavoro alle spalle: è uno dei maggiori soggetti attivi dal punto di vista sociale, culturale, il tutto, essendo una associazione no profit lo fa gratuitamente per la comunità di Pantelleria.”
Cultura
Pantelleria, tutti a sgrappolare per il passito. Donne riunite tra uva passa, chiacchiere e cultura
Un gruppo di donne squisitamente tutte pantesche da generazioni, un pomeriggio un pò uggioso, ma tiepido, una tavola ospitale e si va in scena.
Mariuccia, Rosa, Maria, Annita, Anna, Michele e altre signore delle contrade attigue Khamma e Tracino, tra un grappolo e l’altro rievocano ricordi, improvvisano battute, risate, il tutto non con completa leggerezza, bensì con la consapevolezza di stare eseguendo un lavoro dal duplice valore: economico per la produzione del passito e culturale, per il gusto e lo stimolo sempre vivo di mantenere le tradizioni antiche della nostra straordinaria Pantelleria.
Una telefonata e via il gruppo si era creato. Ma anticamente come facevano ad accordarsi con le case distanti, senza mezzi di locomozione? Eppure belli e folti erano i gruppi che si adunavano in una casa per pomeriggio e serate a sgrappolare, tessere mustazzola, e sbucciare uva per la marmellata.
La finalità? Aiutarsi vicendevolmente e ritrovarsi in compagnia.
In tutto questo cast al femminile, l’unica quota azzurra è rappresentata da Michele, un gran signore galante e simpatico, di quelli di altri tempi che, temerariamente è riuscito a reggere e sopportare il chiacchiericcio infinito delle cummari. Le mani sapienti, appiccicose, che sanno di buono.
Il pomeriggio non è bastato poichè il quantitativo di raspi di uva è assai, quindi appuntamento al prima possibile, ma solo dopo aver raccolto le olive, perchè a Pantelleria non ci si ferma mai.
C’è sempre da fare.
Ma cosa accade agli acini appassiti, rigorosamente al sole su stenditoi che rivestono tetti, passiaturi e aie?
Tante le teorie e le modalità, per raggiungere tutti lo stesso risultato, un’eccellenza: il passito di Pantelleria.

Lo zibibbo, una volta essiccato, viene aggiunto al mosto dove riposerà e agirà chimicamente per tre mesi, ma anche su questo ciascun coltivatore ha la sua.
Alcuni, ancora, aggiungono l’uva passa in due o tre soluzioni, step; addirittura aziende che lo producono con 10 aggiunte.
A Pantelleria vi sono varie zone, sia a livello di latitudine che di altitudine e l’esposizione incide sulla dolcezza dell’uva.
Adesso le cantine hanno la tecnologia che permette per esempio di fare un mosto, metterlo in un serbatoio, refrigerarlo quindi a 5-6 gradi per evitare che fermenti e poi quando si ha l’uva secca, si unisce. Partita la fermentazione, questo mosto si ottiene il grado alcolico desiderato.
Si pensi che alcuni passiti sono sui 20 gradi di zucchero, che si ottengono aggiungendo 200 grammi di zibibbo appassito.
Il passito di Pantelleria è un gran prodotto che richiede molto lavoro, sacrificio, le cui origini risalgono all’antichità e che tutto il mondo corteggia.
Cultura
Pantelleria e l’asso degli aerosiluranti a Margana: Guido Robone
Dai primi di maggio e per tutta l’estate dell’anno 1941 fu dislocata all’aeroporto di Margana la 278a Squadriglia Autonoma Aerosiluranti al fine di contrastare i convogli navali britannici
Dai primi di maggio e per tutta l’estate dell’anno 1941 fu dislocata all’aeroporto di Margana la 278a Squadriglia Autonoma Aerosiluranti al fine di contrastare i convogli navali britannici, che andavano a rifornire l’isola di Malta ridotta ormai allo stremo dal lungo assedio delle forze dell’Asse.
La 278a era dotata del velivolo Savoia-Marchetti S.M.79 detto Sparviero, un aereo trimotore ad ala
bassa multiruolo. Si riconosceva immediatamente per la tipica “gobba” dietro l’abitacolo di volo,
gobba in cui alloggiavano mitragliere Breda-SAFAT da 12,7 mm. Per tale tipicità era denominato
dagli avieri scherzosamente anche col nomignolo di “gobbo maledetto”.
Distintivo della 278a:
quattro gatti, due bianchi e due neri. Motto: “Pauci sed semper immites” (Pochi ma sempre
implacabili).
Uno degli S.M.79 di stanza a Margana, identificato con il numero “278-1”, era l’aereo dal tenente
pilota Guido Robone da Como. Il Robone, quand’era ancora un giovane sottotenente, era stato uno
dei pochi ad aver superato la durissima selezione di piloti, che il 25 luglio 1940 a Gorizia erano
andati a costituire il primo “Reparto Sperimentale Aerosilurante”.
Di quel gruppo ristretto faceva
parte anche l’allora tenente Carlo Emanuele Buscaglia, che sarà poi uno dei più famosi aviatori
nella specialità degli aerosiluranti, riuscendo ad affondare oltre 100 000 tonnellate di naviglio
nemico. Le onorificenze concesse al Buscaglia testimoniano del suo indomito valore: Medaglia
d’oro, ben sei Medaglie d’argento, Croce di Ferro di 2ª Classe, due avanzamenti di gradi per merito
di guerra. E scusate se è poco. In molte missioni di guerra Robone fu gregario di Buscaglia
Da sottolineare che anche Buscaglia avrà modo di operare, col suo aerosilurante, da Pantelleria nel
giugno del 1942 al tempo della vittoriosa battaglia di “Mezzo giugno”, in cui la Royal Navy inglese
subirà una pesante e umiliante sconfitta.
Quando il tenente pilota Guido Robone giunse a Margana in quella calda estate del ‘41, lo
precedeva la fama di asso, come confermavano i nastrini azzurri appuntati sul petto di due medaglie
d’argento.
Le medaglie
Motivazione della prima medaglia: “Capo equipaggio di apparecchio aerosilurante già provato per ardimento in molteplici rischiose e difficili azioni di guerra, il giorno 14 ottobre in ore notturne raggiunta una formazione navale nemica,
nonostante violentissima reazione contraerea, la attaccava decisamente riuscendo a colpire un
incrociatore.
Confermava cosi le sue elevate doti di combattente, alto senso del dovere e sprezzo del
pericolo
Cielo del Mediterraneo, 14 ottobre 1940-XVII”.
Motivazione della seconda: “Capo equipaggio di apparecchio aerosilurante, di provato valore guidava il proprio apparecchio all’attacco di formazioni navali nemiche in mare aperto ed in munitissime basi riuscendo a colpire col siluro tre unità.
II giorno 11 gennaio 1941 al rientro da una lunga azione di ricognizione
offensiva condotta in mare aperto con condizioni atmosferiche proibitive, a causa di perdita di
benzina si ritrovava senza carburante lontano dalla base su zona montagnosa. Anziché affidare la
propria salvezza al paracadute, preferiva effettuare un pericolosissimo atterraggio notturno di
fortuna con siluro a bordo riuscendo a portare in salvo l’equipaggio, l’arma e parte del materiale. Nel
nobile tentativo restava ferito.
Cielo del Mediterraneo, 2 novembre 1940-11 gennaio 1941-XIX”.
Dalle motivazioni precedenti si può comprendere bene quale tempra d’uomo e di pilota fosse il
Robone. D’altronde quest’ultimo, al suo arrivo a Pantelleria, era appena reduce da un altro
successo, conseguito nei mari prospicienti l’Africa Settentrionale decollando dal campo di Berka
(Bengasi).
Infatti alle ore 19:25 del precedente 21 aprile 1941, aveva attaccato con la solita
determinazione e con il consueto indomito coraggio una formazione navale britannica, silurando,
malgrado la furiosa contraerea, la petroliera British Lord di 6.000 tonnellate e danneggiandola
gravemente.
Dell’efficacia del siluramento si ebbe poi conferma anche dagli inglesi.
Orazio Ferrara
(1 – continua)
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