Cultura
Un ufficiale di Pantelleria decorato con due medaglie d’argento al valore: Vincenzo Patanè
Probabilmente è stato il militare, nativo di Pantelleria, più decorato e la prima motivazione, come vedremo, è davvero sorprendente. Peccato che le notizie su di lui sono oltremodo scarse e carenti, sembra che persino la sua piccola patria natia lo abbia dimenticato del tutto. Parliamo del giovane ufficiale pantesco Vincenzo Patanè da Pantelleria, volontario nella guerra italo-turca per il possesso della Libia (29 settembre 1911 – 18 ottobre 1912) e che successivamente restò in Tripolitania salendo rapidamente nella gerarchia e negli incarichi militari. Da quel poco che sappiamo Vincenzo Patanè fu uno sfegatato senza pari. Giovane tenente, forse della Brigata Giardina al comando del generale Guglielmo Pecori Giraldi, si mise in luce già nei feroci e vittoriosi combattimenti alla baionetta del 4 dicembre 1911 presso Ain Zara, 8 chilometri a sud di Tripoli, difesa da 8.000 soldati turchi e da una batteria di cannoni Krupp da 87 mm. Ma fu nella successiva battaglia di Zanzur o battaglia di Sidi Abdul Jalil dell’8 giugno 1912 che il tenente Patanè si conquistò la fiducia incondizionata dei suoi uomini (che da allora lo avrebbero seguito anche all’inferno) e la stupita ammirazione dei suoi superiori. All’alba dell’8 egli, con il suo reparto, confluì nella colonna, che andava a formare l’ala sinistra delle forze italiane attaccanti. L’obiettivo di questa colonna era la conquista di una serie di trinceramenti, alcuni coperti, scaglionati in profondità e difesi da migliaia di turchi, appoggiati anche da pezzi di artiglieria. Alle ore 05:00 del mattino la colonna italiana venne a contatto col nemico del primo trinceramento, che opponeva però una dura resistenza. Le cose sembravano mettersi male, allorquando il tenente Patanè prese una bandiera tricolore e la inalberò su un fucile inastato con la baionetta, poi si avventò contro la trincea turca, seguito immediatamente da tutti i suoi soldati entusiasti. Fu il segnale generale anche per gli altri, in breve il primo trincerone fu conquistato e si passò ai successivi, che caddero l’uno dietro l’altro. Alle ore 07:30 ci fu l’ultimo furioso assalto alla posizione di Sidi-Abd-el-Gilii, con la conquista di quest’ultima la battaglia di Zanzur poteva dirsi conclusa con la vittoria delle armi italiane. I combattimenti, peraltro quasi sempre alla baionetta e con le armi bianche, erano stati di una violenza così inaudita che le trincee furono poi trovate letteralmente zeppe di cadaveri di nemici uccisi. Bella la motivazione della medaglia d’argento al valor militare concessa al giovane tenente Vincenzo Patanè da Pantelleria. Sentiamola:
“A Zanzur, nell'assalto alla baionetta dato dall'ala sinistra, inalberando una bandiera sul fucile, si slanciò audacemente fra i primi, fra l'entusiasmo della truppa, giungendo a piantarla sulla trincea. Si comportò lodevolmente anche ad Ain Zara. Ain Zara, 4 dicembre 1911 – Zanzur, 8 giugno 1912”. Dopo la fine della guerra italo-turca Vincenzo Patanè rimase in Tripolitania sempre col Regio Esercito, facendo in soli sei anni una brillante carriera prima come capitano poi come maggiore, con quest’ultimo grado nel 1918 fu incaricato del comando interinale dell’importante piazzaforte di Homs (Al Khums), città e porto della Tripolitania. Nel frattempo aveva ricevuto dal re la prestigiosa nomina a cavaliere. In quel periodo, siamo in piena prima guerra mondiale, in Libia era in atto una persistente guerriglia, fomentata dalla Turchia allora alleata degli austro-tedeschi. Come sempre l’ufficiale pantesco non si risparmiava ed era sempre dove più ferveva il pericolo, si distinse ancora una volta per il coraggio personale e la perizia nel comando nei sanguinosi combattimenti presso l’oasi di Zembre (Homs) nella giornata del 10 aprile 1918. Purtroppo il suo continuo sprezzo del pericolo doveva portarlo, circa un mese dopo, ad un fatale appuntamento col destino. Era il 16 maggio 1918 quando il maggiore Patanè decise di effettuare di persona una ricognizione, via mare, da Homs verso la non lontana città di Misurata. Lo scopo della missione era saggiare la consistenza delle difese di quest’ultima e individuare i punti della circostante costa ancora in mano ai ribelli, cosa che richiedeva una pericolosa navigazione sotto costa. Durante la ricognizione l’imbarcazione fu fatta segno numerose volte a furiose scariche di fucileria da parte del nemico, ma sempre l’ufficiale pantesco, per meglio fare le sue osservazioni, ordinò di non allontanarsi al largo. Improvvisamente una pallottola in pieno petto fermò per sempre il cuore di quel coraggioso. L’Italia gli tributò la seconda medaglia d’argento al valor militare questa volta, purtroppo, alla memoria. Motivazione: “A Patanè cav. Vincenzo, da Pantelleria (Trapani), maggiore comandante interinale zona Homs. Quale comandante interinale di zona prendeva parte volontariamente ad una ricognizione verso Misurata, per riconoscere lo stato di difesa della città. Durante la crociera, fatto segno a scariche di fucileria, teneva contegno ammirevole per calma e noncuranza del pericolo, finché rimaneva colpito a morte da un proiettile. Già segnalatosi per ardimento e perizia nel combattimento nei dintorni di Homs (10 aprile 1918). Acque di Misurata (Africa Settentrionale), 16 maggio 1918”. Malgrado le ricerche effettuate non sono riuscito a scovare una qualsiasi foto del maggiore Vincenzo Patanè, pertanto rivolgo un appello ai lettori de Il Giornale di Pantelleria: se mai caso qualcuno ne fosse in possesso, lo prego di mettersi in contatto con lo scrivente tramite la Direzione
di questo stesso Giornale. L’invito di cui sopra è esteso anche a foto e documenti di altri panteschi combattenti nelle guerre del Novecento, considerato che da tempo sto preparando al riguardo un libro “per non dimenticare”. Grazie.
Orazio Ferrara
Foto: Ufficiali italiani a Homs
Cultura
I racconti del vecchio marinaio di Pantelleria: Il rito antico della dragunera
Quel giorno lasciai gli scogli di San Leonardo più presto del solito, mentre i miei amici erano ancora a mollo a mare, in un’acqua trasparente e azzurrina come solo il mare di Pantelleria sa esserlo. Mi soffermai ancora una volta a leggere le scritte multicolori che rendevano meno triste il vecchio bunker di cemento armato della seconda guerra mondiale. L’amore di sempre: “ti voglio bene, “un cuore solo”, “ti amerò per sempre” precedute da un nome femminile e tante altre scritte, eredità amorose di generazioni di giovani panteschi. Una però faceva a pugni con tutte le altre, “Mariuccia buttana”. Doveva essere stato davvero un brutto tradimento, per bollarlo con un marchio di fuoco e per tramandarlo così ai posteri.
Giunsi sulla banchina e lo vidi seduto sulla solita bitta di fronte al castello, la nuvola azzurrina del fumo della sua pipa gli conferiva una strana aureola di mistero. Avevo deciso di porgli alcune domande, ma appena mi vide cominciò a parlare con voce arrochita dal tabacco e dalla salsedine. “Il veliero Madonna di Trapani era un vero e proprio gioiello della marineria pantesca. Due alberi, bompresso lungo come una lancia, vele latine che sapevano piegarsi al vento, ma non alla paura. Patrun Vitu, il suo comandante, era un uomo di mare e di silenzi infiniti, con le mani dure come la nostra pietra lavica e gli occhi di un verde misterioso, che avevano visto tempeste e miracoli. Nelle sue mani il timone seguiva docilmente l’invisibile linea della rotta fissata.
Quel giorno, ero ancora picciotto ‘i varca, avevamo da diverse ore passatu l’isola di Ustica e puntavamo, con tutte le vele spiegate su Trapani, fermarci qui la notte e il giorno seguente tornare a Pantiddraria, dove dovevamo sbarcare delle merci comprate a Napoli. Il mar Tirreno sembrava quieto e il vento amico, ma ‘ogni marinaio sa che “Cu ventu e cu mari nun si fa cuntrattu” (Col vento e col mare non si fa contratto). Così all’improvviso il cielo cambiò.
Una linea nera si stese sull’orizzonte, e il vento cadde morto di colpo. I marinai si guardarono l’un l’altro muti e attoniti. Il capitano Vito salì sul ponte e scrutò quel cielo nerastro e la vide: una dragunera (tromba marina), la maledizione antica e rabbiosa per chi va per mare. Essa, sottile e affilata, scendeva dal cielo come il dito di dio marino irato, girando vorticosamente sull’acqua.
Il nostromo Turi colse l’ansia e il timore degli altri uomini dell’equipaggio e chiese a patrun Vitu di virare. Ma Vito no, non solo perché la cosa era impossibile per mancanza di vento, ma perché egli era uomo che accettava intrepido le sfide in mare. Lui conosceva lu ritu anticu, lo aveva visto fare
da suo nonno e da suo padre prima di lui. Aprì il baule sotto il timone e ne trasse un coltello d’ossidiana, nero come la notte e affilato come il silenzio che precede la burrasca. Poi disse deciso “Mantenete la rotta, non si fugge davanti alla dragunera. Si tagghia”.
Si diresse a prua e la sua figura alta e possente sembrò dominare le onde. Il vento intanto aveva ripreso a soffiare forte e impetuoso che a momenti gli strappava il berretto. La dragunera si avvicinava, ululando conne una magara. Vito attese, fermo, come nu parrinu davanti all’artari. Quando la coda della tromba marina fu a portata, egli disse vecchie parole che non si potevano intendere, poi tracciò con il coltello d’ossidiana una grande croce nell’aria e recitò a voce alta questa preghiera:
Nniputenza di lu Patri,
Sapienza di lu Figghiiu,
pi virtù di lu Spiritu Santu
e pi nnomu di Maria
sta cuda tagghiata sia
Un suono sordo, come un lamento, si levò dal mare. La vorticosa colonna d’acqua si dissolse e il cielo si aprì all’azzurro. Tutti noi marinai, increduli, guardavamo ammirati e a un tempo intimoriti il capitano come si guarda un uomo che ha parlato allora allora con gli spiriti. Vito tornò al timone, rimise il coltello di ossidiana nel baule e disse solo: “Adesso a casa”. Al tramonto del giorno dopo Pantelleria ci apparve all’orizzonte, nera e fiera e materna. Il Madonna di Trapani, come sempre, entrò in velocità nello stretto passaggio che dava al porto vecchio. Solo capitan Vito e qualche altro patrun si potevano permettere di sfidare la scogliera cartaginese semisommersa.
La voce del subitaneo taglio della dragunera si sparse, in un battibaleno, in tutte le contrade dell’isola e da quel giorno ogni marinaio pantesco che incrociava patrun Vitu lo salutava con rispetto misto ad ammirazione. Perché non tutti sanno tagghiare la coda a una tromba marina. E soprattutto non tutti hanno il coraggio di farlo”.
Il vecchio marinaio si tacque definitivamente.
Girò le spalle e si mise a guardare, assorto, il mare
come aspettasse l’arrivo di qualcuno, intanto la nuvola azzurrina del fumo della pipa, che lo
avvolgeva in tenui volute, gli conferiva un certo non so che di misterioso.
Orazio Ferrara

Cultura
Trapani e l’oro rosso del Mediterraneo: “Il Corallo anima di Trapani”. Un mese di eventi
Dal 2 al 19 dicembre 2025, Trapani celebra la sua storica tradizione corallara con la seconda edizione di “Il Corallo anima di Trapani”, un programma che coinvolgerà studenti, artigiani, istituzioni e comunità del Mediterraneo.
L’iniziativa, promossa dal Comune di Trapani e dalla Biblioteca Fardelliana con il contributo dell’Assessorato delle Autonomie Locali e della Funzione Pubblica della Regione Siciliana intreccia formazione, cultura e diplomazia mediterranea per preservare e tramandare l’antica arte della lavorazione del corallo.
Dal 2 al 5 dicembre, le botteghe e showroom trapanesi apriranno le porte agli studenti per visite guidate alla scoperta dei segreti di quest’arte millenaria.
Il percorso prosegue dal 9 al 12 dicembre al Museo Regionale Pepoli con il laboratorio creativo “Dal Mediterraneo al Museo – Il viaggio del corallo”, curato dall’Associazione “Amici del Museo Pepoli”.
Il 13 dicembre alle ore 17.00, sempre al Museo Pepoli, verrà presentato il restauro del prezioso Presepe in corallo del XVIII secolo, capolavoro dell’artigianato trapanese.
L’evento culminante si terrà il 19 dicembre alle ore 17.30 alla Biblioteca Fardelliana: la tavola rotonda internazionale “Rotte del Corallo – Dialogo tra culture mediterranee” vedrà rappresentanti istituzionali e maestri corallai e la firma di un protocollo della “Rete Mediterranea delle Città del Corallo”, un’alleanza che consolida i legami tra le comunità mediterranee unite da questa tradizione.
“Quest’anno proponiamo la seconda edizione de “Il Corallo anima di Trapani”. Siamo estremamente orgogliosi che questo progetto prosegua: dopo l’edizione del 2024, oggi varchiamo i confini della nostra città per un momento di dialogo con le tradizioni dell’arte del corallo non soltanto di un’altra città siciliana come Sciacca, ma anche di altre città d’Italia – Torre del Greco e Alghero – e oltre i confini nazionali, nel Mediterraneo con Tunisia e Andalusia.
Ci confronteremo non solo per raccontare la nostra tradizione, durante una sessione scientifica del convegno, ma vogliamo stilare un protocollo d’intesa per costituire una rete mediterranea delle città del corallo. L’obiettivo è avviare un percorso comune e condiviso di promozione, affinché questa antichissima e preziosa arte possa essere rinnovata e valorizzata congiuntamente” – così affermano Giacomo Tranchida, sindaco del Comune di Trapani e Rosalia d’Alí, assessore alla Cultura.
Per tutto dicembre, la Biblioteca Fardelliana proporrà un percorso audiovisivo dedicato al corallo trapanese: un docufilm che racconta tradizione e futuro attraverso l’intelligenza artificiale e un documentario che esplora il corallo tra arte, ricerca e innovazione. Due narrazioni complementari che offrono sguardi contemporanei su un’arte antica.
“Il corallo anima di Trapani” è un modello di valorizzazione che coniuga tutela delle tradizioni, innovazione e cooperazione internazionale.
Cultura
Solarino: l’incendio del 1944, la memoria perduta e i documenti spariti
Nel dicembre del 1944, un incendio devastò il Municipio di Solarino, distruggendo gran parte degli archivi storici della città e cancellando documenti fondamentali, tra cui gli atti comunali della fondazione. Quell’evento segnò una ferita indelebile nella memoria collettiva della comunità, lasciando un vuoto che ancora oggi non è stato colmato. Se alcuni documenti furono salvati dall’incendio, oggi non esistono tracce ufficiali nell’Archivio Storico Centrale. Tutto lascia intendere che siano finiti in collezioni private non autorizzate, sottratti alla fruizione pubblica e alla stessa cittadinanza.
Una situazione inaccettabile, che trasforma un bene pubblico in patrimonio di pochi, privando Solarino della propria storia e compromettendo la possibilità di ricostruire dati amministrativi, catastali e sociali fondamentali. Le modalità con cui l’incendio e la gestione dell’evento furono affrontate sollevano interrogativi inquietanti. L’inerzia delle autorità comunali dell’epoca e la rapidità con cui i documenti andarono perduti alimentano il sospetto che dietro alla distruzione ci sia stata più negligenza che casualità, se non vere responsabilità organizzate. Oggi, decenni dopo, quella negligenza si traduce in un fenomeno diffuso: molti privati detengono ancora materiali che dovrebbero appartenere al patrimonio pubblico. Il quadro attuale impone un’azione immediata e risoluta.

Chiunque possieda documenti ufficiali di Solarino ha il dovere legale e morale di restituirli all’Archivio Storico comunale, dove possano essere catalogati, conservati e resi accessibili a studiosi, cittadini e scuole. La mancata restituzione non è solo un danno culturale: è una violazione della legge e dei principi fondamentali di trasparenza e pubblicità del patrimonio pubblico.
Solarino rischia di perdere per sempre pezzi irripetibili della propria storia se non si interviene con determinazione.
L’Archivio Storico deve essere messo in sicurezza, dotato di spazi idonei, personale qualificato e strumenti digitali per garantire la consultazione pubblica. Ogni documento recuperato dalle collezioni private deve tornare alla comunità: è l’unico modo per trasformare la memoria perduta in patrimonio condiviso e impedire che la storia venga decisa da pochi privilegiati. L’incendio del 1944 resta un monito: la memoria di Solarino non può essere cancellata dall’inerzia, dall’incuria o dall’interesse privato.
La città ha il diritto di conoscere la propria storia, e chi detiene documenti pubblici senza autorizzazione deve restituirli senza indugio. È una questione di giustizia storica, civile e amministrativa: il tempo della tolleranza è finito.
Laura Liistro
Le immagini sono tratte dall’archivio del Comune di Solarino
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