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Cultura

Sicilia, “Anni 60-70 – Noi che giocavamo per strada in un luogo con tradizioni arcaiche”

Redazione

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Voi sapiri qual è lu megghiu jocu? Fà beni e parra pocu…

(Questo proverbio siciliano ci ricorda che è buona abitudine agire secondo coscienza e non parlare a sproposito. D’altronde, quando si è certi di agire bene, non c’è bisogno di perdersi in chiacchiere!)

Come si giocava una volta? A differenza dei giochi di oggi, quelli di una volta erano semplici e spontanei, si svolgevano quasi sempre nella strada e vi prendevano parte tutti i bambini del quartiere. Tipicamente femminili erano i giochi d’imitazione: le bambine giocavano “alla mamma”, facendo finta di preparare da mangiare per la bambola che avevano costruito usando dei fazzoletti o degli stracci; oppure “agli sposi”, “al battesimo”, “alla maestra”, “alla sarta”, ecc…. Per la strada giocavano a saltare la corda o al cerchio o gareggiare nella corsa; ‘o sinnu’, ‘e quattru cantuneri’, ‘e cincu petri’, ‘a ciappedda’, ‘e nuciddi’, ‘u battimuru’, ‘u truppiettu’, ‘u scinna e cravacca’, ‘a muccia lucerta’, ‘o ssicuta’, ‘a naca’. Tutti questi giochi avevano una funzione non solo ricreativa ma anche educativa, infatti mettevano in rilievo le abilità dei bambini e il loro modo di agire all’interno di un gruppo e ne pronunciavano il comportamento futuro. Faremo una breve carrellata dei giochi più diffusi nell’Isola: Vacca scinni e ntravacca, quadrato o campana o sciancateddu, guardia e ladri e la corsa.

Il Gioco: Vacca scinni e ntravacca “Lu jocu cunsisti a riuniri nu gruppu di carusi o di picciutteddi, n ginirali tra li 6 e li 15 anni, n nùmmuru variabbili tra na quattrina e na dicina, spartuti di du’ squatri e di scegghiri nu muru. Nu carusu si metti appujatu câ testa ô muru; lu secunnu dâ sò squatra si metti appujatu e piegatu darreri lu primu, di manera a furmari na speci di vacca. Se ci sunnu assai participanti, ci pònnu essiri àutri carusi dâ stissa squatra ca s’appujanu l’unu darreri a l’autru chê pedi n terra. Li carusi di l’àutra squatra (circa la mitati) pigghiannu la rincorsa sàutunu supra la vacca (li carusi ca stannu sutta) e arrestanu a cavadduni, circannu di nun càdiri. Lu scopu è di fari n manera ca lu nùmmuru cchiù àutu pussìbbili di carusi acchiana supra la vacca, nzinu a quannu lu pisu a la voca è tali ca la vacca a fini ntravacca, cioé li carusi di sutta nun hannu cchiù la forza di règgiri chiddi ca stannu di supra”. Vacca scinni e ntravacca o Scarica canali è una variante del “gioco del cinque e del dieci”. Un gioco ancora più antico. I partecipanti si dividevano in due gruppi. Uno “stava sotto” e chinandosi i ragazzi formavano una sorta di cavallino sul quale saltare e scivolare in avanti. L’altro gruppo di fanciulli, invece, solitamente più esili, atletici e leggeri prendeva la rincorsa e … “Ohp!” …. sì saltava cercando di arrivare il più lontano possibile per far spazio al prossimo, che stava già per prendere la rincorsa. Lo scopo era di fare salire sulle spalle degli avversari il numero più possibile di giocatori senza cadere o appoggiare neanche un piede a terra…, fino a quando il peso non veniva sopportato dalla squadra sottostante. Vinceva quella squadra che riusciva a far salire più giocatori nelle spalle della cosiddetta “Vacca” (Mucca).

Il Gioco del Quadrato o Campana o Sciancateddu Lo “Sciancateddu” è uno dei più amati dei giochi siciliani della tradizione. In tanti ricordano sicuramente quando, da bambini, tracciavano a terra con il gesso il classico schema a riquadri, sul quale saltare con una gamba sola. Una gara di abilità, che sarebbe stata vinta da chi avrebbe completato prima il percorso. Il nome, naturalmente, deriva dall’aggettivo sciancatu, cioè zoppo o storpio, perché quando si saltella ci si muove con il baricentro spostato. Lo sciancateddu è l’equivalente siciliano del gioco della campana. Nonostante esista in diverse aree geografiche, in Sicilia è particolarmente amato, al punto da aver assunto tante denominazioni diverse. Lo possiamo trovare, dunque, anche come tririticchete, a ma­rèd­da, ‘u tuòr­nu, la qua­drel­la o ‘u qua­tra­tu.

Come si gioca a Sciancateddu Le regole sono praticamente sempre le stesse. Si traccia il percorso, con diverse caselle. Il giocatore che inizia lancia nella prima casella il proprio sassolino. Il sassolino deve atterrare all’interno della casella senza toccare nessuna linea o uscirne fuori. Il giocatore, quindi, saltella su un solo piede di casella in casella lungo tutto il percorso, ma senza mai entrare nel riquadro in cui è presente il suo sassolino.

Le caselle possono essere toccate solo con un piede, ma i blocchi di due caselle affiancate consentono di appoggiare contemporaneamente entrambi i piedi (uno in ciascuna casella, sempre che una delle due non sia occupata dal contrassegno). Raggiunta la casella finale il giocatore può fermarsi per poi voltarsi, effettuando mezzo giro, e rifare il percorso a ritroso, sempre rispettando la regola del singolo appoggio o del doppio appoggio dei piedi a seconda che si tratti di una casella singola o di due caselle affiancate. Giunto in corrispondenza della casella che contiene il proprio sassolino, il giocatore lo deve raccogliere senza perdere l’equilibrio e completare il percorso tornando al punto di partenza. Dopo aver completato con successo il percorso di andata e ritorno, il giocatore lancia la sua pietra nella casella numero due e così via. Vince chi per primo visita con il proprio contrassegno tutte le caselle, completando ogni volta il percorso.

Poi c’era “L’acchiappa-acchiappa” (Rincorrere e toccare l’avversario), “Ammuccia-Ammuccia” (nascondino) erano sì giochi che potevano praticare entrambi i sessi ma… all’insaputa dei genitori di lei. Cos’ come a “Medico e paziente” gioco rigorosamente praticato “di nascosto al chiuso di una stanza. Il Preferito gioco che giocavamo in Piazza Archi ad Ibla… “A guardia e ladri” Si giocava dopo essersi prima accordati tra chi doveva fare il ladro e chi la guardia: All’improvviso uno della “banda” gridava nella mischia: “Alt-gioco-ora facemu ‘o cuntrariu”. Giocare è sempre bello, ma giocare a guardie e ladri in vicoli quasi bui e in case a volte fatiscenti era il massimo per noi ragazzi di strada…il tempo passava velocemente e nessuno soffriva di noia… Quando arrivava il tempo di farsi la “zita”, cominciavano a formarsi le comitive. Alle prime feste si ballava “spazzola”: il ragazzo che durante il ballo lento riceveva una “spazzolata” sulla schiena doveva cedere il posto all’altro. Più ardito il gioco della “bottiglia” che stabiliva un penitente al quale riservare un pegno non troppo “amichevole”.

Poi venne la Tv dei Ragazzi Tutto ha inizio alle ore 17 del 3 gennaio del 1954, sulle frequenze dell’unico canale che allora entrava nelle famiglie italiane. Il motto della trasmissione era “Educare divertendo”.

Programmi educativi, dunque; ma anche di intrattenimento per lo più di provenienza statunitense. Tra i telefilm più amati c’erano Rin Tin Tin, Lassie, Zorro, Penna di Falco, Furia. In quei tempi il televisore non era presente in tutte le case e allora i meni fortunati venivano ospitati dai compagni di gioco che ne possedevano uno, non esisteva nemmeno il registratore e allora non bisognava perdere nemmeno una puntata. Finito il telefilm, soprattutto d’estate, tutti all’aria aperta a giocare ai banditi e agli indiani. Furia, Lessie, Rin Tin Tin e Zorro. Anche la Rai allora aveva creato propri personaggi come Giovanna la nonna del Corsaro Nero, Topo Gigio; personaggi certamente un po’ ingenui, ma che sapevano offrire ai ragazzi valori positivi. Curiosità: la televisione ben presto si impadronì anche degli adulti, il mezzo televisivo nella nostra terra, era presente non tanto nelle singole case ma nei locali pubblici come i bar . A quel tempo iniziò una nuova e promettente trasmissione televisiva “Lascia o raddoppia?” e fu subito un grande successo; il giovedì sera in molti cinema interrompevano addirittura la regolare programmazione cinematografica per trasmettere “Lascia o raddoppia?” che divenne, nei 4 anni di programmazione, un fenomeno di costume della società italiana. Nasce il personaggio Mike Bongiorno, ma anche la figura del notaio televisivo e il mito della valletta muta, impersonata prima da Maria Giovannini per alcune puntate e dalla mitica Edy Campagnoli.

 

Luci ed ombre di un gioco amato che con il tempo diventò una passione… la Corsa La statale pareva una serpe bianca tra i campi verdi vista dalla terrazza di casa mia ad Ibla. Mio padre la guardava ogni sera dopo cena, curvo sul parapetto, con una sigaretta (Nazionale…) in bocca. Diceva che gli piaceva perché era diversa dalla città che conosceva, che si vedeva invece affacciandosi dall’altro lato della terrazza. In città mio padre aveva una barberia dove aveva lavorato sin da piccolo perché anche suo padre faceva lo stesso mestiere nella stessa barberia (mio nonno…), e in vent’anni che aveva quella terrazza, non gli era mai venuta troppa voglia di guardare le luci di Ragusa Ibla, nonostante fossero affascinanti. Io da piccolo – che di nome faccio Salvatore, ma in famiglia mi chiamavano Titì – dopo la scuola, avevo l’abitudine di lustrare e pulire, prima di indorsarli quelle scarpette di corsa per tornare quando faceva scuro. Mi erano state regalate da mia madre qualche estate prima (con il primo stipendio da infermiera…), perché in provincia c’era poco da fare e così almeno potevo svagarmi visto che amavo correre. Il piccolo Titì (alias io…) aveva dato anche un nome a quelle scarpette: Clik e Clok, mi pareva che con quelle scarpette avrei conquistato mete sconosciute a gran parte dei miei compagni… “una genuina illusione tutta mia…” Dopo qualche kilometro di corsa lì attorno, conoscevo ogni sentiero a memoria delle sciumare (luoghi adiacenti al fiume), e a quindici anni compiuti aveva scoperto che andare di corsa era forse l’unica cosa che mi piaceva fare davvero. A mia madre lo aveva già detto, e lei ne era rimasta contenta in fondo, nonostante le perplessità, ma mi aveva sconsigliato di dirlo a mio padre. Io però non provavo alcuna vergogna per quella mia passione – non vedevo perché avrei dovuto – così quella sera del mio compleanno, che non era affatto diversa dalle altre, ma solo perché mi sentivo più sicuro, mentre mia madre era a letto e mio padre fumava in terrazza la solita “Nazionale”, mi misi accanto a lui e gli disse: «Papà, io vorrei iscrivermi in una società di atletica per diventare un atleta corridore». Mio padre non distolse neppure lo sguardo dalla statale. «Se c’è uno sport che proprio non capisco, è la corsa. Cosa corri a fare? Chi vai rincorrendo? Neanche l’ombra di un soldo, ecco a cosa vai incontro» disse. Per mio padre esistevano solo due tipi di discipline sportive: Il calcio e il pugilato. Che ne so! Hai presente Luciano Tummino, il figlio di Don Tano, quello che abita dalle parti di San Giorgio? Fa il fotografo per matrimoni e cerimonie. Dice che nel tempo libero con alcuni altri giovani si preparano

per gare rionali… e vedendomi correre ha detto se volevo potevo iscrivermi nella società di “Ibla Atletica”. Mi piacerebbe. Ci vuole la Tua firma per la responsabilità genitoriale e una quota di iscrizione… «Senti una cosa, lo sai come mi chiamavano da ragazzo? La perla, perché sembravo Pelé quando giocavo a pallone. Solo che a quattordici anni mi hanno mandato a fare l’aiutante barbiere nella bottega del mio caro padre.» Se Tu vuoi correre per quella società lo puoi fare solo nel tempo libero del Pastificio S. Lucia. Guardai giù, parevano che Clik e Clok mi stessero aspettando per portarmi via di lì. Allora rientrai in casa, scesi le scale e uscii in cortile, mi infilai le scarpette e incominciai a correre lungo il vialetto, in direzione della statale pensando “più forte che puoi”. Un piede avanti all’altro, la schiena dritta prima che iniziasse la salita, poi corsi ancor di più, sembravo un cinghiale impazzito, su quella strada bianca. Se qualcuno mi avesse guardato, mi avrebbe visto comparire e scomparire a grande velocità sotto i fasci di luce giallastra dei lampioni. Quasi arrivato in cima alla salita mi voltai verso casa mia, ma mio padre, un uomo alto e magro, se ne stava curvo sul parapetto a guardare la città. Alla fine, feci inversione e tornai indietro, sfrecciando su quella che adesso mi si parava davanti come una discesa ripida. Potevo vedere accanto a me i fili d’erba piegarsi, come se si inchinassero al mio passaggio. Poco dopo mi ritrovai di fronte a casa mia, ma non mi fermai e, senza neppure guardare più di tanto…, mi lasciai trasportare dalla velocità che aveva accumulato tirando dritto. Di fronte ai miei occhi, ecco spalancarsi le luci del quartiere degli Archi, lontane e brillanti pepite d’oro. Continuai a correre pensando: “Se non mi richiama giuro che non mi fermo”. A ogni affondo speravo di sentire pronunciato il mio nome nel silenzio della campagna adiacente al quartiere. Nel frattempo che il mio sguardo si perdeva tra quelle mille luci, io correvo più forte che potevo –inseguendo l’istinto che sentivo…e forse già non pensavo più le stesse cose di qualche secondo prima, perché quell’aria che gli scompigliava la zazzera mi piaceva e non ricordavo nulla che mi facesse sentire meglio. Così quando non sentii la voce ma il fischio con cui mio padre mi chiamava… Il “Titì” preferì accelerare il passo e ritornare a casa. Rassegnato di non poter essere membro attivo dell’Atletica Ibla…come futura mia professione promisi a me stesso di continuare a correre e gareggiare in modo amatoriale… quando feci il servizio militare… ironia della sorte! Fui assegnato ad un corpo che la corsa era la peculiarità maggiore: “il Bersagliere”.

Salvatore Battaglia

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Pantelleria, oggi presentazione del libro “Le note stonate” di Antonino Maggiore

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Questo pomeriggio, 7 dicembre 2025, dalle ore 16.30, presso i noti locali del Circolo Ogigia di Pantelleria Centro, si terrà la presentazione del libro “Le note stonate” di Antonino Maggiore.

Ad affiancare l’autore, Franca Zona e Giovanna Drago, apprezzate donne di cultura, che si alterneranno in una intervista conoscitiva del libro.

Antonino Maggiore, classe 1982, è un docente di musica presso la scuola primaria di Pantelleria, dove unisce rigore e creatività, nel quotidiano rapporto con l’infanzia.
Lo scrittore pantesco non è alla sua prima opera. Negli anni ha già pubblicato due raccolte poetiche: “Niente di importante” e una “Penna x amico“, grazie alle quali ha ricevuto diversi importanti riconoscimenti.
Le note strane” è un romanzo autobiografico: in viaggio intimistico tra fragilità ed ironia, attraversando il confine spesso sottile tra disperazione e gioia, risa e pianto.

Con il delicato contributo musicale di Maria Bernardo, si profila un piacevole pomeriggio letterario, al caldo e tra “degustatori” di libri.

L’ingresso è libero

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Cultura

I racconti del vecchio marinaio di Pantelleria: Il rito antico della dragunera

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Quel giorno lasciai gli scogli di San Leonardo più presto del solito, mentre i miei amici erano ancora a mollo a mare, in un’acqua trasparente e azzurrina come solo il mare di Pantelleria sa esserlo. Mi soffermai ancora una volta a leggere le scritte multicolori che rendevano meno triste il vecchio bunker di cemento armato della seconda guerra mondiale. L’amore di sempre: “ti voglio bene, “un cuore solo”, “ti amerò per sempre” precedute da un nome femminile e tante altre scritte, eredità amorose di generazioni di giovani panteschi. Una però faceva a pugni con tutte le altre, “Mariuccia buttana”. Doveva essere stato davvero un brutto tradimento, per bollarlo con un marchio di fuoco e per tramandarlo così ai posteri.

Giunsi sulla banchina e lo vidi seduto sulla solita bitta di fronte al castello, la nuvola azzurrina del fumo della sua pipa gli conferiva una strana aureola di mistero. Avevo deciso di porgli alcune domande, ma appena mi vide cominciò a parlare con voce arrochita dal tabacco e dalla salsedine. “Il veliero Madonna di Trapani era un vero e proprio gioiello della marineria pantesca. Due alberi, bompresso lungo come una lancia, vele latine che sapevano piegarsi al vento, ma non alla paura. Patrun Vitu, il suo comandante, era un uomo di mare e di silenzi infiniti, con le mani dure come la nostra pietra lavica e gli occhi di un verde misterioso, che avevano visto tempeste e miracoli. Nelle sue mani il timone seguiva docilmente l’invisibile linea della rotta fissata.

Quel giorno, ero ancora picciotto ‘i varca, avevamo da diverse ore passatu l’isola di Ustica e puntavamo, con tutte le vele spiegate su Trapani, fermarci qui la notte e il giorno seguente tornare a Pantiddraria, dove dovevamo sbarcare delle merci comprate a Napoli. Il mar Tirreno sembrava quieto e il vento amico, ma ‘ogni marinaio sa che “Cu ventu e cu mari nun si fa cuntrattu” (Col vento e col mare non si fa contratto). Così all’improvviso il cielo cambiò.

Una linea nera si stese sull’orizzonte, e il vento cadde morto di colpo. I marinai si guardarono l’un l’altro muti e attoniti. Il capitano Vito salì sul ponte e scrutò quel cielo nerastro e la vide: una dragunera (tromba marina), la maledizione antica e rabbiosa per chi va per mare. Essa, sottile e affilata, scendeva dal cielo come il dito di dio marino irato, girando vorticosamente sull’acqua.

Il nostromo Turi colse l’ansia e il timore degli altri uomini dell’equipaggio e chiese a patrun Vitu di virare. Ma Vito no, non solo perché la cosa era impossibile per mancanza di vento, ma perché egli era uomo che accettava intrepido le sfide in mare. Lui conosceva lu ritu anticu, lo aveva visto fare

da suo nonno e da suo padre prima di lui. Aprì il baule sotto il timone e ne trasse un coltello d’ossidiana, nero come la notte e affilato come il silenzio che precede la burrasca. Poi disse deciso “Mantenete la rotta, non si fugge davanti alla dragunera. Si tagghia”.

Si diresse a prua e la sua figura alta e possente sembrò dominare le onde. Il vento intanto aveva ripreso a soffiare forte e impetuoso che a momenti gli strappava il berretto. La dragunera si avvicinava, ululando conne una magara. Vito attese, fermo, come nu parrinu davanti all’artari. Quando la coda della tromba marina fu a portata, egli disse vecchie parole che non si potevano intendere, poi tracciò con il coltello d’ossidiana una grande croce nell’aria e recitò a voce alta questa preghiera:

Nniputenza di lu Patri,
Sapienza di lu Figghiiu,
pi virtù di lu Spiritu Santu
e pi nnomu di Maria
sta cuda tagghiata sia

Un suono sordo, come un lamento, si levò dal mare. La vorticosa colonna d’acqua si dissolse e il cielo si aprì all’azzurro. Tutti noi marinai, increduli, guardavamo ammirati e a un tempo intimoriti il capitano come si guarda un uomo che ha parlato allora allora con gli spiriti. Vito tornò al timone, rimise il coltello di ossidiana nel baule e disse solo: “Adesso a casa”. Al tramonto del giorno dopo Pantelleria ci apparve all’orizzonte, nera e fiera e materna. Il Madonna di Trapani, come sempre, entrò in velocità nello stretto passaggio che dava al porto vecchio. Solo capitan Vito e qualche altro patrun si potevano permettere di sfidare la scogliera cartaginese semisommersa.

La voce del subitaneo taglio della dragunera si sparse, in un battibaleno, in tutte le contrade dell’isola e da quel giorno ogni marinaio pantesco che incrociava patrun Vitu lo salutava con rispetto misto ad ammirazione. Perché non tutti sanno tagghiare la coda a una tromba marina. E soprattutto non tutti hanno il coraggio di farlo”.

Il vecchio marinaio si tacque definitivamente.
Girò le spalle e si mise a guardare, assorto, il mare come aspettasse l’arrivo di qualcuno, intanto la nuvola azzurrina del fumo della pipa, che lo avvolgeva in tenui volute, gli conferiva un certo non so che di misterioso.

Orazio Ferrara


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Cultura

Trapani e l’oro rosso del Mediterraneo: “Il Corallo anima di Trapani”. Un mese di eventi

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Dal 2 al 19 dicembre 2025, Trapani celebra la sua storica tradizione corallara con la seconda edizione di “Il Corallo anima di Trapani”, un programma che coinvolgerà studenti, artigiani, istituzioni e comunità del Mediterraneo.
L’iniziativa, promossa dal Comune di Trapani e dalla Biblioteca Fardelliana con il contributo dell’Assessorato delle Autonomie Locali e della Funzione Pubblica della Regione Siciliana intreccia formazione, cultura e diplomazia mediterranea per preservare e tramandare l’antica arte della lavorazione del corallo.
Dal 2 al 5 dicembre, le botteghe e showroom trapanesi apriranno le porte agli studenti per visite guidate alla scoperta dei segreti di quest’arte millenaria.
Il percorso prosegue dal 9 al 12 dicembre al Museo Regionale Pepoli con il laboratorio creativo “Dal Mediterraneo al Museo – Il viaggio del corallo”, curato dall’Associazione “Amici del Museo Pepoli”.
Il 13 dicembre alle ore 17.00, sempre al Museo Pepoli, verrà presentato il restauro del prezioso Presepe in corallo del XVIII secolo, capolavoro dell’artigianato trapanese.
L’evento culminante si terrà il 19 dicembre alle ore 17.30 alla Biblioteca Fardelliana: la tavola rotonda internazionale “Rotte del Corallo – Dialogo tra culture mediterranee” vedrà rappresentanti istituzionali e maestri corallai e la firma di un protocollo della “Rete Mediterranea delle Città del Corallo”, un’alleanza che consolida i legami tra le comunità mediterranee unite da questa tradizione.
“Quest’anno proponiamo la seconda edizione de “Il Corallo anima di Trapani”. Siamo estremamente orgogliosi che questo progetto prosegua: dopo l’edizione del 2024, oggi varchiamo i confini della nostra città per un momento di dialogo con le tradizioni dell’arte del corallo non soltanto di un’altra città siciliana come Sciacca, ma anche di altre città d’Italia – Torre del Greco e Alghero – e oltre i confini nazionali, nel Mediterraneo con Tunisia e Andalusia.
Ci confronteremo non solo per raccontare la nostra tradizione, durante una sessione scientifica del convegno, ma vogliamo stilare un protocollo d’intesa per costituire una rete mediterranea delle città del corallo. L’obiettivo è avviare un percorso comune e condiviso di promozione, affinché questa antichissima e preziosa arte possa essere rinnovata e valorizzata congiuntamente” – così affermano Giacomo Tranchida, sindaco del Comune di Trapani e Rosalia d’Alí, assessore alla Cultura.
Per tutto dicembre, la Biblioteca Fardelliana proporrà un percorso audiovisivo dedicato al corallo trapanese: un docufilm che racconta tradizione e futuro attraverso l’intelligenza artificiale e un documentario che esplora il corallo tra arte, ricerca e innovazione. Due narrazioni complementari che offrono sguardi contemporanei su un’arte antica.
“Il corallo anima di Trapani” è un modello di valorizzazione che coniuga tutela delle tradizioni, innovazione e cooperazione internazionale.

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