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Cultura

Pantelleria, Punta della Croce punto cruciale di antropizzazione romana e bizantina

Redazione

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Punta della Croce, come già detto, chiude a nordovest la rada di Pantelleria, in fondo alla quale si stende l’abitato principale dell’isola, il luogo di massima concentrazione e della massima antropizzazione, perlomeno dall’epoca post romana e bizantina. Il nome del luogo, è, o meglio sarebbe, Oppidolo, ovvero piccolo paese o cittadina (dal latino Oppidum). Qui sarebbe lecito pertanto aspettarsi forse tante piccole tracce della presenza umana, ma così non è, per le immani distruzioni dovute all’ultima guerra mondiale, quando tutta la terra emersa fu considerata una base militare aerea e navale di grande importanza strategica, detta anche piazzaforte perché appunto fortificata, o Sentinella dell’Impero, nel linguaggio roboante dell’epoca.

Tenuto conto della piccolezza del cosiddetto Porto Vecchio, vi fu costruito un Porto Nuovo, detto anche Cidonio, nome che richiama l’uva e la città cretese omonima, simbolo circondato da uve, incompleto allo scoppio delle ostilità, anche per proteggere meglio il bacino dal forte vento Maestrale (venti fora, nel dialetto locale. Ma le circa 15.000 tonnellate di bombe sganciate dagli anglo-americani ridussero porto e paese ad un immenso calderone, quasi come il cratere di un vulcano attivo. Poco si salvò, in particolare il grande Castello Normanno, con le sue possenti mura,prima lambito dal mare,  con la sua torre principale, detta di San Barnaba,  già polveriera, e ben poco d’altro, comunque il tutto sforacchiato abbondantemente dagli intensi mitragliamenti dall’aria, visibili ancora fino a pochi anni fa, nonché ben poche costruzioni civili, quale il leggiadro vecchio Municipio, e nulla di religioso, essendo tutte le chiese ammassi di rovine.
Rimase in piedi solo qualche edificio, più o meno sbocconcellato.
Quel che è ancora visibile è solo qualche tracciato stradale, spesso acciottolato, tra Medina e Borgo Italia e nei pressi del Castello.
Anche le antiche Mura (la cittadina era murata) e le Porte divennero solo macerie. Interessante è tuttavia, per chi sa “leggere” l’area, riconoscere l’intreccio dei vicoli della Medina stessa, segno tipico della conformazione urbana medioevale.
Chiude la rada la Punta detta di San Leonardo, su cui sorgeva una “lanterna”, e nei pressi del quale funzionavano gli antichi mulini a vento.
Complessivamente l’aspetto doveva essere quello di un tipico borgo mediterraneo, fatto di lava e intonaco bianco, di scale e terrazze; che oggi sarebbe apprezzatissimo dai numerosi turisti, per quel fascino particolare e pittoresco che luoghi di questo genere emanano.
Certo ben diverso dall’accozzaglia cementiera, nata per l’urgenza e necessità del dopoguerra, che fa storcere il naso ai tanti che poi si innamorano delle contrade.
Superata punta San Leonardo, il tratto di costa lavica corre, nerissima, verso la Cala del Bue Marino, ovvero della foca monaca che vi abitava, ma l’ultimo avvistamento sembra risalga ai primi del Novecento. La Cala, bellissima, ha un’insolita forma squadrata ed è molto frequentata dai bagnanti , per questa facilità di approccio. In questa stessa zona si presenta una scogliera di elementi poligonali accostati, in qualche modo simili a più famose scogliere irlandesi, così tanto lontane. A seguire le “garitte” di Karuscia, gemelle di pietra, a testimoniare l’imbocco della stradina verso l’interno, una volta presidiate, come l’antica punta della Guardia vecchia, punto di osservazione difensivo sul Canale di Sicilia (u Canalle), oggi considerato una zona franca per nudisti. La strada perimetrale corre poi verso l’amena contrada di Campobello, ridente, pianeggiante e solare, di verde e di nero.  Si dirama, poco avanti, la strada per il Lago Specchio di Venere {u vagnu di l’acqua), e poi ancora per Kaddiuggia e l’antica chiesa di Sant’Anna, nei pressi della quale e’ il più vistoso giardino di piante grasse o succulente, di cui è estimatore e curatore il personaggio più nobile fra i tanti famosi dell’isola, il principe duca Amedeo di Savoia Aosta, aspirante al trono d’Italia, grande filopante.
Infine su un’altura si erge la rustica chiesetta di San Vincenzo, da cui si guarda un esteso e splendido panorama su KartiBugal, con le sue basse rive, fino alla mitica Cala dei Cinque Denti e a Punta Spadillo, con il suo poderoso Faro e il museo vulcanologico, alloggiato negli accasermamenti della locale Batteria marittima antinavale.
Un’isola, un piccolo Universo.
Enzo Bonomo Ferrandes
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Cultura

Pantelleria, I racconti del vecchio marinaio pantesco

Orazio Ferrara

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In viaggio con patrun Vito

Il sole scendeva lento sul porto vecchio di Pantelleria, tingendo di rosso scuro le pietre di lava delle parate difensive del castello a guardia sempiterna dello specchio di mare antistante. Era un pomeriggio inoltrato di uno dei primi anni Sessanta e io, curioso come sempre di cose di mare, mi fermai ad osservare un vecchio marinaio seduto, tranquillo e silenzioso, su una bitta della banchina.

Poteva avere sui settant’anni e la salsedine e il maestrale di tutti quegli anni gli avevano modellato il viso come una fitta e intricata ragnatela, che non metteva affatto repulsione, anzi lo rendeva del tutto simpatico, facendomi subito riandare con la mente ai vecchi marinai di Salgari, i cui romanzi di mare in quel tempo erano una delle mie letture preferite. Il vecchio marinaio era intento a battere con forti colpi, ripetutamente. la sua pipa sulla suola di una scarpa, ma a me sembrò che non volesse scrollarsi soltanto della cenere, piuttosto dei pensieri molesti, carico gravoso e ineludibile che ti regala la vecchiaia. Alla mia domanda se avesse mai fatto parte di un equipaggio di un veliero pantesco dei tempi andati, alzò lo sguardo tra il meravigliato e l’indispettito e con la pipa a mezz’aria.

Ma cosa poteva mai interessare a quel ragazzotto, che sembrava tornare allora allora da una giornata di mare passata tra gli scogli di punta San Leonardo, di un tempo ormai irrimediabilmente perduto? Poi parlò con voce roca come ghiaia che si muove sotto le onde del mare e disse: “Sugn’ statu prima picciotto ‘ì varca appoi marenaro”.

Dunque prima mozzo e poi marinaio, quindi una vita sul mare fin da giovanissimo Dette queste parole si tacque e caricò lentamente la pipa con del tabacco nero come la pece e l’accese. Sembrava che il colloquio fosse finito lì, quando riprese a parlare con quella sua voce roca, che sapeva di mare antico.

“Fici lu primu viaggiu da Pantiddraria a Napule ca varca ‘i patrun Vitu”. A questo punto, per il lettore che non intende bene il siciliano, continuo il racconto in italiano, salvo, per inciso, qualche espressione dialettale. “Allora ero picciotto ‘ì varca. Era il 1903, o forse il 1904, chi si nni ricorda cchiù e in quegli anni patron Vito era il capitano di veliero più sperto di Pantelleria e dopo ‘u Signuri nostru era il mare ad avere tutta la sua devozione.

In navigazione, pur con tutta la sua indiscussa bravura in cose di mare, non era mai arrogante perché soleva ripetere “Cu mari e cu venti ‘un tti fa valenti” (Con il mare e con i venti non essere arrogante o peggio spavaldo).

“Il veliero di patrun Vito non era grande, ma era solido e forte come una pietra nivura della nostra isola. Si chiamava “Madonna di Trapani” ed era stato varato nei cantieri di Amalfi nell’anno 1890, se non ricordo male. Ha navigato, attrezzato poi con un motore, fino alla vigilia dell’ultima guerra.

Ai miei tempi andava solo a vela. Aveva due alberi e bompresso e dispiegava una velatura, che lo faceva filare dritto sul mare come una freccia. Allora le barche avevano ancora un’anima di tela, bianca come le ali di un angelo. Il giorno della partenza, che per me era l’inizio del primo viaggio per mare come picciotto, la stiva era piena zeppa fino all’orlo. I sacchi più pesanti erano lì, i capperi di Bommarino. Quelli che si mettono sotto sale, carnosi, quelli che danno sapore a tutto quel che mangi. E poi, le cassette, con la stoffa sopra per non farle scaldare, dell’uva passa più bella, quella della contrada di Grazia di Sopra. Seccata al sole nostro africano, dolce come il miele, la nostra Zibibbo, trasformata in oro, doveva arrivare a Napoli al più presto possibile, dove la gente danarosa la voleva per i loro dolci.

Patron Vito fu categorico: da Pantelleria a Napoli senza scali in porti intermedi. Se Dio vuole, in tre giorni. E così fu. Uscimmo dal porto con il vento buono, lasciandoci presto alle spalle ‘a petra ‘i fora. La brezza gonfiava la vela maestra come il petto di un galletto in amore. Sette, a volte otto nodi, in pieno giorno. Un trotto regolare. Potevi quasi sentirla, la barca che mangiava il mare, spinta solo da quelle tele spiegate e dalla bravura di Vito e del nostromo Turi.

Il capitano Vito non dormiva. Stava lì, con il timone in mano, a parlare con il vento e con le onde, a sentire l’odore del mare che cambiava. Dalla costa siciliana fino a che non vedevi altro che blu. Non voleva fermarsi. Non per Messina, non per Salerno. Doveva essere un viaggio diretto. Un viaggio cui dovevano vantarsi, al ritorno, tutti i marinai dell’equipaggio nelle lunghe serate invernali pantesche davanti a un buon bicchiere di vino passito. La vita a bordo era semplice: pane, cipolla e qualche sarda salata.

Il silenzio

Ma la cosa più bella era il silenzio. Solo lo scricchiolio del legno, il vento che fischiava nelle sartie e il suono delle onde che si aprivano, inchinandosi, sotto la prua. Per tre giorni e tre notti vedemmo solo l’orizzonte. Poi, all’alba del quarto giorno, quando il sole cominciava a spuntare, eccola. La sagoma grande, colorata, di Napoli, all’ombra del suo gigante nero, il Vesuvio.

Solo in quel momento patrun Vitu tirò un sospiro che sembrava quello del mare intero. Attraccammo, e il carico era perfetto. I capperi profumavano, l’uva passa era intatta. Era così, allora. L’abilità e il coraggio di un uomo di mare pantesco e i frutti della sua terra.

Oggi, ci sono i motori, e quella meravigliosa sensazione di andare per mare spinti solo dal vento di ‘u Signuri nostru … quella non la senti più”. E si tacque, batté più volte la pipa sulla suola della scarpa per scrollare la cenere e si perse, silenzioso, nei suoi pensieri antichi incrostati di salsedine.

 

Orazio Ferrara

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Personaggi

E’ morta Ornella Vanoni, un’artista di grande di stile, simpatia e sagacia

Direttore

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“Io voglio vivere finchè do alla vita qualcosa”
Il mondo della musica perde una vera icona… “senza fine”

La voce tra le più imitate e seducenti della musica italiana si è spenta per sempre.
Ornella Vanoni è morta a 91 anni, nella sua casa di Milano, colpita da un arresto cardiocircolatorio.  I soccorritori sono arrivati quando ormai era troppo tardi. 

Classe ’34, con lei si chiude un sipario dello spettacolo senza tempo e senza repliche. L’artista, che aveva esordito nello spettacolo a teatro con Strehiler,  non era solo una cantante, era un simbolo capace di attraversare epoche senza mai diventare fuori moda. 
All’attivo si contano quasi settant’anni di carriera e  oltre 55 milioni di dischi venduti, che hanno  scolpito la sua voce nella memoria mondiale. 

La personalità forte, caratterizzata spesso da sferzate pungenti, era dotata di grande intelligenza e capacità da riuscire a cantare sul palco duettando con giovani big della canzone italiana.

Negli ultimi anni era diventata la presenza fissa più attesa da Fabio Fazio, forse più della Littizzetto, che superava in simpatia e spontaneità. 
Lo scorso giugno venne insignita della laurea honoris causa. Durante la cerimoni seppe manifestare la sua regale umiltà.

Parlando della morte, la cantante milanese così si è espressa “Io non voglio morire troppo grande. Io voglio vivere finchè alla vita do qualcosa e la vita mi dà. Il giorno in cui non dò più o non mi dà, io non voglio vivere.”

Ieri sera se ne è così come ha vissuto, con stile, senza clamore. 
Di lei rimarranno le sue canzoni intramontabili, impresse addosso al suo pubblico come cicatrici dolci.

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Cultura

Gran Galà delle Lady Chef – Prima Edizione Siciliana

Redazione

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Gran Galà delle Lady Chef – Prima Edizione Siciliana

Il 24 e 25 novembre, presso l’Hotel Casena dei Colli di Palermo, si svolgerà la prima edizione del Gran Galà delle Lady Chef, promosso dall’Unione Regionale Cuochi Siciliani

Un evento che intende valorizzare il ruolo delle donne chef, protagoniste della cucina professionale siciliana, e celebrare la loro competenza, dedizione e passione.

Il comparto Lady Chef, nato ventinove anni fa, ha come obiettivo quello di mettere in risalto la figura femminile nelle cucine e di contribuire al superamento del divario di genere. Il Gran Galà sarà dunque un’occasione di incontro e di festa, ma anche di riflessione e confronto, nel segno dello spirito associazionistico che anima l’Unione Regionale Cuochi Siciliani.
All’interno della manifestazione si terrà la selezione regionale del Concorso Cirio, che decreterà la Lady Chef siciliana chiamata a rappresentare la regione nella fase nazionale dei Campionati della Cucina Italiana a Rimini

“Una vera e propria festa – ha dichiarato la Coordinatrice Regionale, Chef Rosi Napoli – che vuole essere anche un momento di condivisione, riflessione e confronto”. Le Lady Chef provenienti da tutte le province siciliane si ritroveranno a Palermo per vivere insieme due giornate intense, all’insegna della collaborazione e della professionalità.

“Celebreremo la bellezza – ha concluso Chef Napoli – quella che rimane anche sui volti stanchi dopo ore di lavoro. Celebreremo i sacrifici, la competenza e la forza delle nostre meravigliose Lady Chef.”

A moderare l’evento sarà la food blogger e Lady Chef, Barbara Conti, Segretario Provinciale APCI di Ragusa, che accompagnerà il pubblico in questo viaggio di memoria, territorio e passione culinaria.

Per consultare il programma completo  epotere prendere parte alla Cena di Gala, aperta a tutti, andate sulla pagina facebook Lady Chef Regione Sicilia

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