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Cultura

11 giugno 1943: conclusione dell’assedio di Pantelleria nella Seconda Guerra Mondiale

Redazione

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L’11 giugno 1943 si concludeva, ignominiosamente, l’assedio di Pantelleria durante la seconda guerra mondiale, operazione definita dagli Alleati (fra di loro) “Corkscraw” e “Workshop”.

Dopo tre anni di guerra, veniva occupata dal nemico il primo lembo di terra italiana.
Cadeva quella che era stata definita “sentinella dell’impero”, Gibilterra italiana, piazzaforte mediterranea.
Era la logica conclusione di un arretramento progressivo cominciato da El Alamein, a 111 chilometri da Alessandria d’Egitto, nel novembre del ’42, quando l’impeto italo-tedesco era stato fermato dalle forze britanniche (inglesi, australiani, canadesi, indiani, sudafricani, etc.), con un rapporto di forze di 1 a 4 a nostro svantaggio.
Poi, una lunga ritirata per tutta la Libia e la Tunisia, con l’ultima difesa sulla penisola di Capo Bon, dove si distinse il mitico generale Messe.
Peraltro, in Tunisia, dove viveva una rilevante comunità di italiani, furono tantissimi i volontari che si arruolarono volontariamente nel Regio Esercito Italiano, contribuendo agli sforzi di difesa.
Subito dopo, e con azioni anche precedenti, cominciò l’attacco all’isola, come laboratorio sperimentale e per preparare l’attacco successivo alla Sicilia, eliminando una pericolosa spina nel fianco.
L’isola era presidiata da 11.400 uomini delle varie armi, al comando dellammiraglio Gino Pavesi, dotata di diverse batterie marittime e contraeree, di un aeroporto con innovativo e sicuro Hangar.
Per 50 giorni fu circondata e cannoneggiata da unità navali inglesi dotate di artiglieria di lunga gittata, contrariamente alla nostra, ma soprattutto fu tempestata di bombardamenti diurni e notturni.
Secondo alcuni calcoli, caddero sulle teste dei nostri soldati e dei nostri civili circa 6.500 tonnellate di bombe aeree, ma senza scalfire lo spirito degli assediati tutti.
Poche, tutto sommato, furono anche le vittime. Grazie ai rifugi e alla difesa stessa. Ovviamente gli obiettivi erano principalmente militari, porto, aeroporto, caserme e batterie, ma fu inevitabile anche la distruzione onil danneggiamento di diverse strutture civili, compreso il Castello normanno, sede del comando e dell’Ammiragliato.
Dopo avere respinto alcune intimazioni di resa, il comandante Pavesi chiese l’autorizzazione ad arrendersi, avanzando la giustificazione che non vi era più acqua disponibile in un luogo privo di vere sorgenti.  Ottenutala, venne segnalata alle forze nemiche la resa.
Ciononostante, allo sbarco delle prime truppe, si verificò un fuoco di fucileria e di mitraglia contro di esse che registrarono alcuni feriti. Il fuoco dei soldati italiani fu però presto tacitato dagli ordini degli ufficiali informati della resa. Ciò però è la testimonianza che la truppa era pronta a resistere anche all’invasione terrestre.
Cosa avvenne allora?
Gli storici di parte sostengono che fu una resa incondizionata senza colpo ferire, anche allo scopo di dimostrare la scarsa volontà di combattere degli italiani, demoralizzati dall’andamento della guerra.
In parte ciò può essere vero, ma dopo avere resistito senza un lamento per così tanto tempo, si può parlare impunemente di viltà?
Non credo proprio, ma soprattutto ciò sarebbe grave offesa a uomini che avevano sofferto a lungo, faticando ogni singolo giorno sotto le ondate offensive anglo-americane, con forze infinitamente superiori alle nostre.
Come racconta anche Orazio Ferrara, nella sua ricostruzione storica, anche gli asini si ribellarono ad una resa considerata ingiusta, ferendo qualche inglese, uno dei quali rimase ucciso.
Stranamente l’ammiraglio comandante, dopo la guerra sottoposto ad un processo, fu assolto e reintegrato, e, cosa anche peggiore, premiato come numerosi altri ammiragli (Augusta, e non solo) ricevette decorazioni e riconoscimenti anglo-americani. Ed è tutto dire.
L’intera guarnigione fu fatta prigioniera di guerra e portata in Africa (mio padre sbarcato a Sfax, poi in Algeria), per essere internata nei campi di concentramento, che avrebbe lasciato solo al termine di tutta la guerra.
La memoria delle vittime non deve essere cancellata, i morti furono tanti e diversi, come nell’episodio di Punta Croce e in tanti altri.
Valga comunque ricordare che la difesa pantesca causò l’abbattimento complessivo d’impiego meno di un centinaio di aerei da guerra, caccia e bombardieri, nemici.
Inoltre, mi permetto di aggiungere, come nota personale rivelante lo spirito, un noto personaggio locale mi mostrò in gran segreto, molti anni dopo, nella sua casa di Gadir, estraendola da un vecchio comò, una grande bandiera del Regno che aveva accuratamente nascosto per non farla cadere in mani ostili.
Sconfitti si, ma senza alcuna viltà della truppa, a cui non si possono attribuire colpe e tanto meno una “damnatio memoriae”. Colpevole è invece una storiografia successiva, carica di intendimenti ideologici e non patriottici.
Onore ai Combattenti!
Enzo Bonomo
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2 Comments

2 Comments

  1. Avatar

    Sandro

    22:16 - Giugno 11, 2020 at 22:16

    Essersi arresi ha risparmiato vittime inutili, resistere non avrebbe cambiato il corso degli eventi

  2. Avatar

    Mauro

    17:23 - Giugno 21, 2020 at 17:23

    Onore, sempre ed incondizionato a tutti quelli che si sono opposti alle prevaricazioni prepotenti dei più forti che hanno vinto solo per questo, non perché avessero ragione. La ragione l’hanno meritata solo per aver scritto la storia.

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Cultura

Pantelleria, I racconti del vecchio marinaio pantesco

Orazio Ferrara

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In viaggio con patrun Vito

Il sole scendeva lento sul porto vecchio di Pantelleria, tingendo di rosso scuro le pietre di lava delle parate difensive del castello a guardia sempiterna dello specchio di mare antistante. Era un pomeriggio inoltrato di uno dei primi anni Sessanta e io, curioso come sempre di cose di mare, mi fermai ad osservare un vecchio marinaio seduto, tranquillo e silenzioso, su una bitta della banchina.

Poteva avere sui settant’anni e la salsedine e il maestrale di tutti quegli anni gli avevano modellato il viso come una fitta e intricata ragnatela, che non metteva affatto repulsione, anzi lo rendeva del tutto simpatico, facendomi subito riandare con la mente ai vecchi marinai di Salgari, i cui romanzi di mare in quel tempo erano una delle mie letture preferite. Il vecchio marinaio era intento a battere con forti colpi, ripetutamente. la sua pipa sulla suola di una scarpa, ma a me sembrò che non volesse scrollarsi soltanto della cenere, piuttosto dei pensieri molesti, carico gravoso e ineludibile che ti regala la vecchiaia. Alla mia domanda se avesse mai fatto parte di un equipaggio di un veliero pantesco dei tempi andati, alzò lo sguardo tra il meravigliato e l’indispettito e con la pipa a mezz’aria.

Ma cosa poteva mai interessare a quel ragazzotto, che sembrava tornare allora allora da una giornata di mare passata tra gli scogli di punta San Leonardo, di un tempo ormai irrimediabilmente perduto? Poi parlò con voce roca come ghiaia che si muove sotto le onde del mare e disse: “Sugn’ statu prima picciotto ‘ì varca appoi marenaro”.

Dunque prima mozzo e poi marinaio, quindi una vita sul mare fin da giovanissimo Dette queste parole si tacque e caricò lentamente la pipa con del tabacco nero come la pece e l’accese. Sembrava che il colloquio fosse finito lì, quando riprese a parlare con quella sua voce roca, che sapeva di mare antico.

“Fici lu primu viaggiu da Pantiddraria a Napule ca varca ‘i patrun Vitu”. A questo punto, per il lettore che non intende bene il siciliano, continuo il racconto in italiano, salvo, per inciso, qualche espressione dialettale. “Allora ero picciotto ‘ì varca. Era il 1903, o forse il 1904, chi si nni ricorda cchiù e in quegli anni patron Vito era il capitano di veliero più sperto di Pantelleria e dopo ‘u Signuri nostru era il mare ad avere tutta la sua devozione.

In navigazione, pur con tutta la sua indiscussa bravura in cose di mare, non era mai arrogante perché soleva ripetere “Cu mari e cu venti ‘un tti fa valenti” (Con il mare e con i venti non essere arrogante o peggio spavaldo).

“Il veliero di patrun Vito non era grande, ma era solido e forte come una pietra nivura della nostra isola. Si chiamava “Madonna di Trapani” ed era stato varato nei cantieri di Amalfi nell’anno 1890, se non ricordo male. Ha navigato, attrezzato poi con un motore, fino alla vigilia dell’ultima guerra.

Ai miei tempi andava solo a vela. Aveva due alberi e bompresso e dispiegava una velatura, che lo faceva filare dritto sul mare come una freccia. Allora le barche avevano ancora un’anima di tela, bianca come le ali di un angelo. Il giorno della partenza, che per me era l’inizio del primo viaggio per mare come picciotto, la stiva era piena zeppa fino all’orlo. I sacchi più pesanti erano lì, i capperi di Bommarino. Quelli che si mettono sotto sale, carnosi, quelli che danno sapore a tutto quel che mangi. E poi, le cassette, con la stoffa sopra per non farle scaldare, dell’uva passa più bella, quella della contrada di Grazia di Sopra. Seccata al sole nostro africano, dolce come il miele, la nostra Zibibbo, trasformata in oro, doveva arrivare a Napoli al più presto possibile, dove la gente danarosa la voleva per i loro dolci.

Patron Vito fu categorico: da Pantelleria a Napoli senza scali in porti intermedi. Se Dio vuole, in tre giorni. E così fu. Uscimmo dal porto con il vento buono, lasciandoci presto alle spalle ‘a petra ‘i fora. La brezza gonfiava la vela maestra come il petto di un galletto in amore. Sette, a volte otto nodi, in pieno giorno. Un trotto regolare. Potevi quasi sentirla, la barca che mangiava il mare, spinta solo da quelle tele spiegate e dalla bravura di Vito e del nostromo Turi.

Il capitano Vito non dormiva. Stava lì, con il timone in mano, a parlare con il vento e con le onde, a sentire l’odore del mare che cambiava. Dalla costa siciliana fino a che non vedevi altro che blu. Non voleva fermarsi. Non per Messina, non per Salerno. Doveva essere un viaggio diretto. Un viaggio cui dovevano vantarsi, al ritorno, tutti i marinai dell’equipaggio nelle lunghe serate invernali pantesche davanti a un buon bicchiere di vino passito. La vita a bordo era semplice: pane, cipolla e qualche sarda salata.

Il silenzio

Ma la cosa più bella era il silenzio. Solo lo scricchiolio del legno, il vento che fischiava nelle sartie e il suono delle onde che si aprivano, inchinandosi, sotto la prua. Per tre giorni e tre notti vedemmo solo l’orizzonte. Poi, all’alba del quarto giorno, quando il sole cominciava a spuntare, eccola. La sagoma grande, colorata, di Napoli, all’ombra del suo gigante nero, il Vesuvio.

Solo in quel momento patrun Vitu tirò un sospiro che sembrava quello del mare intero. Attraccammo, e il carico era perfetto. I capperi profumavano, l’uva passa era intatta. Era così, allora. L’abilità e il coraggio di un uomo di mare pantesco e i frutti della sua terra.

Oggi, ci sono i motori, e quella meravigliosa sensazione di andare per mare spinti solo dal vento di ‘u Signuri nostru … quella non la senti più”. E si tacque, batté più volte la pipa sulla suola della scarpa per scrollare la cenere e si perse, silenzioso, nei suoi pensieri antichi incrostati di salsedine.

 

Orazio Ferrara

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Personaggi

E’ morta Ornella Vanoni, un’artista di grande di stile, simpatia e sagacia

Direttore

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“Io voglio vivere finchè do alla vita qualcosa”
Il mondo della musica perde una vera icona… “senza fine”

La voce tra le più imitate e seducenti della musica italiana si è spenta per sempre.
Ornella Vanoni è morta a 91 anni, nella sua casa di Milano, colpita da un arresto cardiocircolatorio.  I soccorritori sono arrivati quando ormai era troppo tardi. 

Classe ’34, con lei si chiude un sipario dello spettacolo senza tempo e senza repliche. L’artista, che aveva esordito nello spettacolo a teatro con Strehiler,  non era solo una cantante, era un simbolo capace di attraversare epoche senza mai diventare fuori moda. 
All’attivo si contano quasi settant’anni di carriera e  oltre 55 milioni di dischi venduti, che hanno  scolpito la sua voce nella memoria mondiale. 

La personalità forte, caratterizzata spesso da sferzate pungenti, era dotata di grande intelligenza e capacità da riuscire a cantare sul palco duettando con giovani big della canzone italiana.

Negli ultimi anni era diventata la presenza fissa più attesa da Fabio Fazio, forse più della Littizzetto, che superava in simpatia e spontaneità. 
Lo scorso giugno venne insignita della laurea honoris causa. Durante la cerimoni seppe manifestare la sua regale umiltà.

Parlando della morte, la cantante milanese così si è espressa “Io non voglio morire troppo grande. Io voglio vivere finchè alla vita do qualcosa e la vita mi dà. Il giorno in cui non dò più o non mi dà, io non voglio vivere.”

Ieri sera se ne è così come ha vissuto, con stile, senza clamore. 
Di lei rimarranno le sue canzoni intramontabili, impresse addosso al suo pubblico come cicatrici dolci.

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Cultura

Gran Galà delle Lady Chef – Prima Edizione Siciliana

Redazione

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Gran Galà delle Lady Chef – Prima Edizione Siciliana

Il 24 e 25 novembre, presso l’Hotel Casena dei Colli di Palermo, si svolgerà la prima edizione del Gran Galà delle Lady Chef, promosso dall’Unione Regionale Cuochi Siciliani

Un evento che intende valorizzare il ruolo delle donne chef, protagoniste della cucina professionale siciliana, e celebrare la loro competenza, dedizione e passione.

Il comparto Lady Chef, nato ventinove anni fa, ha come obiettivo quello di mettere in risalto la figura femminile nelle cucine e di contribuire al superamento del divario di genere. Il Gran Galà sarà dunque un’occasione di incontro e di festa, ma anche di riflessione e confronto, nel segno dello spirito associazionistico che anima l’Unione Regionale Cuochi Siciliani.
All’interno della manifestazione si terrà la selezione regionale del Concorso Cirio, che decreterà la Lady Chef siciliana chiamata a rappresentare la regione nella fase nazionale dei Campionati della Cucina Italiana a Rimini

“Una vera e propria festa – ha dichiarato la Coordinatrice Regionale, Chef Rosi Napoli – che vuole essere anche un momento di condivisione, riflessione e confronto”. Le Lady Chef provenienti da tutte le province siciliane si ritroveranno a Palermo per vivere insieme due giornate intense, all’insegna della collaborazione e della professionalità.

“Celebreremo la bellezza – ha concluso Chef Napoli – quella che rimane anche sui volti stanchi dopo ore di lavoro. Celebreremo i sacrifici, la competenza e la forza delle nostre meravigliose Lady Chef.”

A moderare l’evento sarà la food blogger e Lady Chef, Barbara Conti, Segretario Provinciale APCI di Ragusa, che accompagnerà il pubblico in questo viaggio di memoria, territorio e passione culinaria.

Per consultare il programma completo  epotere prendere parte alla Cena di Gala, aperta a tutti, andate sulla pagina facebook Lady Chef Regione Sicilia

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