Cultura
Le Testa di Turco di Scicli: il dolce della Madonna delle Milizie
Avete mai assaggiato una Testa di Turco?
Non preoccupatevi, non voglio spingervi a diventare cannibali perché la Testa di Turco di Scicli è un dolce tipico della pasticceria siciliana a base di acqua, strutto, farina e uova. Oggi vi parlo di un dolce tradizionale, unico per nome e aspetto, Le Teste di turco di Scicli (RG) dolce che si ispira al copricapo del turbante (tipico copricapo saraceno) legato alla Madonna delle Milizie, chiamato anche il dolce dei vinti
A Scicli, nota cittadina Iblea conosciuta per il suo patrimonio barocco, cittadina dell’UNESCO e nell’ultimo ventennio divenuta famosa come set de “Il commissario Montalbano”, il mese di Maggio è legato alla festa della Madonna a Cavallo, detta delle Milizie e al dolce devozionale, legato ad essa: la Testa di Turco.
Esistono tuttavia due versioni di questo dolce regionale siciliano: la Testa di turco di Scicli, a base di bignè cotta al forno e ripiena di crema e la Testa di Turco di Castelbuono che rientra nella categoria dei budini e dei dolci al cucchiaio, preparata a base di biancomangiare e sfoglie di cannolo
La Testa di Turco di Scicli è simile ad un grande bignè ma circa tre volte più grande rispetto a quelli tradizionali, generalmente farcito con crema di ricotta o con crema pasticcera. Anche se oggi giorno le pasticcerie locali, propongono le teste di Turco di Scicli farcite nei modi più svariati, pistacchio, mascarpone o nutella. La Testa di Turco di Scicli era un dolce conventuale che anticamente veniva preparato dalle suore in convento.
Successivamente ad opera dei Monsù poi di un pasticcere Napoletano e poi ad opera di Giovannino Neri, la ricetta venne modificata e trasformata in quella che viene utilizzata dalla maggior parte dei pasticceri locali ancora ai nostri giorni. Per la realizzazione della testa di Turco non esiste uno stampo, il loro peso si aggira intorno ai 60-80 grammi vuoto e farcita può arrivare a pesare fino a 350 grammi

Ma perché la testa di turco si chiama così?
C’è chi dice che il nome TESTA DI TURCO sia in ricordo della sconfitta araba da parte dei normanni, che nell’undicesimo secolo conquistarono la Sicilia.
Le teste di turco sono legate all’antico ricordo della vittoria dei cristiani sui turchi nel 1091 ad opera di Ruggero d’Altavilla. La storia narra che proprio nei territori ragusani, a Donnalucata frazione balneare di Scicli, si svolse la battaglia tra Saraceni e Normanni. La battaglia terminò quando, nella piana di Donnalucata, intervenne in aiuto dei cristiani la Vergine dei Milici, la Madonna con la spada detta Madonna delle Milizie, comparsa in abito bianco e con la spada.
Per questo motivo, di recente durante le festività dedicate alla Vergine, la terza settimana di Maggio si può assaporare questo delizioso e soffice dolce strabboccante di crema alla ricotta.
Le Teste di Turco ricordano questa leggendaria battaglia. Secondo la tradizione, dopo la tentata invasione i turchi ritornarono a casa e prepararono un dolce a forma di turbante ripieno di ricotta, il dolce dei vinti.
La sagra delle Teste di Turco
Contestualmente ai festeggiamenti in onore della Madonna si svolge anche la Sagra delle Teste di Turco nella Piazza principale del paese, Piazza Italia.
Nella piazza principale del paese, le migliori pasticcerie di Scicli propongono il dolce delle Milizie nella versione tradizionale con la ricotta, zucchero e cannella. Originariamente questo dolce veniva cotto nel forno a legna, lo stesso in cuci si cuoceva il pane di pasta dura tipico ragusano, in apposite scatole di latta
Prossimamente all’università di Catanaia si terrà una lezione-conferenza che si concentrerà sul caso-studio del dolce sciclitano “Testa di Turco”, per mostrare come il cibo trascenda i limiti di tempo e luogo per servire come insieme identitario commemorativo.
Ricetta della Testa di turco di Scicli
Come si preparano questi dolci squisiti che nella forma ricordano i turbanti dei turchi?
Ingredienti per le teste di Turco
– 150 grammi di farina maiorca
– 150 grammi di strutto
– 350 millilitri di acqua
– 5 uova medie (5o medie)
Preparazione delle Teste di Turco di Scicli
Per la preparazione delle Teste di Turco di Scicli, il procedimento è lo stesso per la realizzazione dei bignè.
In una casseruola versate l’acqua, il burro, il sale
Intanto che l’acqua bolle, setacciate la farina.
Quando l’acqua bolle togliete la cassseruola dal fuoco e aggiungete la farina.
Rimettetelo sul fuoco e mescolate con un cucchiaio di legno finché l’impasto non si stacca dalle pareti.
Toglietelo definitivamente dal fuoco, fate raffreddare per 10 minuti in una ciotola larga e aggiungete una per volta le uova aspettando che si assorbano uno alla volta, mescolando in modo da ottenere un impasto liscio ed omogeneo.
Rivestite una teglia con della carta da forno. Mettete l’impasto in una sac a poche e con la stessa fate dei cerchi concentrici sulla carta formando una mezza dozzina di Teste di Turco grandi quanto un piattino da caffè.
Mettete in forno preriscaldato a 190° e fate cuocere le Teste di Turco per 15 minuti fino a quando non saranno dorate.
Lasciatele raffreddare in una latta per una notte e poi farcitele a vostro piacere.
La Testa di Turco classica di Scicli è farcita con crema di ricotta vaccina, zucchero e cannella.
Buon appetito
Cultura
I racconti del vecchio marinaio di Pantelleria: Il rito antico della dragunera
Quel giorno lasciai gli scogli di San Leonardo più presto del solito, mentre i miei amici erano ancora a mollo a mare, in un’acqua trasparente e azzurrina come solo il mare di Pantelleria sa esserlo. Mi soffermai ancora una volta a leggere le scritte multicolori che rendevano meno triste il vecchio bunker di cemento armato della seconda guerra mondiale. L’amore di sempre: “ti voglio bene, “un cuore solo”, “ti amerò per sempre” precedute da un nome femminile e tante altre scritte, eredità amorose di generazioni di giovani panteschi. Una però faceva a pugni con tutte le altre, “Mariuccia buttana”. Doveva essere stato davvero un brutto tradimento, per bollarlo con un marchio di fuoco e per tramandarlo così ai posteri.
Giunsi sulla banchina e lo vidi seduto sulla solita bitta di fronte al castello, la nuvola azzurrina del fumo della sua pipa gli conferiva una strana aureola di mistero. Avevo deciso di porgli alcune domande, ma appena mi vide cominciò a parlare con voce arrochita dal tabacco e dalla salsedine. “Il veliero Madonna di Trapani era un vero e proprio gioiello della marineria pantesca. Due alberi, bompresso lungo come una lancia, vele latine che sapevano piegarsi al vento, ma non alla paura. Patrun Vitu, il suo comandante, era un uomo di mare e di silenzi infiniti, con le mani dure come la nostra pietra lavica e gli occhi di un verde misterioso, che avevano visto tempeste e miracoli. Nelle sue mani il timone seguiva docilmente l’invisibile linea della rotta fissata.
Quel giorno, ero ancora picciotto ‘i varca, avevamo da diverse ore passatu l’isola di Ustica e puntavamo, con tutte le vele spiegate su Trapani, fermarci qui la notte e il giorno seguente tornare a Pantiddraria, dove dovevamo sbarcare delle merci comprate a Napoli. Il mar Tirreno sembrava quieto e il vento amico, ma ‘ogni marinaio sa che “Cu ventu e cu mari nun si fa cuntrattu” (Col vento e col mare non si fa contratto). Così all’improvviso il cielo cambiò.
Una linea nera si stese sull’orizzonte, e il vento cadde morto di colpo. I marinai si guardarono l’un l’altro muti e attoniti. Il capitano Vito salì sul ponte e scrutò quel cielo nerastro e la vide: una dragunera (tromba marina), la maledizione antica e rabbiosa per chi va per mare. Essa, sottile e affilata, scendeva dal cielo come il dito di dio marino irato, girando vorticosamente sull’acqua.
Il nostromo Turi colse l’ansia e il timore degli altri uomini dell’equipaggio e chiese a patrun Vitu di virare. Ma Vito no, non solo perché la cosa era impossibile per mancanza di vento, ma perché egli era uomo che accettava intrepido le sfide in mare. Lui conosceva lu ritu anticu, lo aveva visto fare
da suo nonno e da suo padre prima di lui. Aprì il baule sotto il timone e ne trasse un coltello d’ossidiana, nero come la notte e affilato come il silenzio che precede la burrasca. Poi disse deciso “Mantenete la rotta, non si fugge davanti alla dragunera. Si tagghia”.
Si diresse a prua e la sua figura alta e possente sembrò dominare le onde. Il vento intanto aveva ripreso a soffiare forte e impetuoso che a momenti gli strappava il berretto. La dragunera si avvicinava, ululando conne una magara. Vito attese, fermo, come nu parrinu davanti all’artari. Quando la coda della tromba marina fu a portata, egli disse vecchie parole che non si potevano intendere, poi tracciò con il coltello d’ossidiana una grande croce nell’aria e recitò a voce alta questa preghiera:
Nniputenza di lu Patri,
Sapienza di lu Figghiiu,
pi virtù di lu Spiritu Santu
e pi nnomu di Maria
sta cuda tagghiata sia
Un suono sordo, come un lamento, si levò dal mare. La vorticosa colonna d’acqua si dissolse e il cielo si aprì all’azzurro. Tutti noi marinai, increduli, guardavamo ammirati e a un tempo intimoriti il capitano come si guarda un uomo che ha parlato allora allora con gli spiriti. Vito tornò al timone, rimise il coltello di ossidiana nel baule e disse solo: “Adesso a casa”. Al tramonto del giorno dopo Pantelleria ci apparve all’orizzonte, nera e fiera e materna. Il Madonna di Trapani, come sempre, entrò in velocità nello stretto passaggio che dava al porto vecchio. Solo capitan Vito e qualche altro patrun si potevano permettere di sfidare la scogliera cartaginese semisommersa.
La voce del subitaneo taglio della dragunera si sparse, in un battibaleno, in tutte le contrade dell’isola e da quel giorno ogni marinaio pantesco che incrociava patrun Vitu lo salutava con rispetto misto ad ammirazione. Perché non tutti sanno tagghiare la coda a una tromba marina. E soprattutto non tutti hanno il coraggio di farlo”.
Il vecchio marinaio si tacque definitivamente.
Girò le spalle e si mise a guardare, assorto, il mare
come aspettasse l’arrivo di qualcuno, intanto la nuvola azzurrina del fumo della pipa, che lo
avvolgeva in tenui volute, gli conferiva un certo non so che di misterioso.
Orazio Ferrara

Cultura
Trapani e l’oro rosso del Mediterraneo: “Il Corallo anima di Trapani”. Un mese di eventi
Dal 2 al 19 dicembre 2025, Trapani celebra la sua storica tradizione corallara con la seconda edizione di “Il Corallo anima di Trapani”, un programma che coinvolgerà studenti, artigiani, istituzioni e comunità del Mediterraneo.
L’iniziativa, promossa dal Comune di Trapani e dalla Biblioteca Fardelliana con il contributo dell’Assessorato delle Autonomie Locali e della Funzione Pubblica della Regione Siciliana intreccia formazione, cultura e diplomazia mediterranea per preservare e tramandare l’antica arte della lavorazione del corallo.
Dal 2 al 5 dicembre, le botteghe e showroom trapanesi apriranno le porte agli studenti per visite guidate alla scoperta dei segreti di quest’arte millenaria.
Il percorso prosegue dal 9 al 12 dicembre al Museo Regionale Pepoli con il laboratorio creativo “Dal Mediterraneo al Museo – Il viaggio del corallo”, curato dall’Associazione “Amici del Museo Pepoli”.
Il 13 dicembre alle ore 17.00, sempre al Museo Pepoli, verrà presentato il restauro del prezioso Presepe in corallo del XVIII secolo, capolavoro dell’artigianato trapanese.
L’evento culminante si terrà il 19 dicembre alle ore 17.30 alla Biblioteca Fardelliana: la tavola rotonda internazionale “Rotte del Corallo – Dialogo tra culture mediterranee” vedrà rappresentanti istituzionali e maestri corallai e la firma di un protocollo della “Rete Mediterranea delle Città del Corallo”, un’alleanza che consolida i legami tra le comunità mediterranee unite da questa tradizione.
“Quest’anno proponiamo la seconda edizione de “Il Corallo anima di Trapani”. Siamo estremamente orgogliosi che questo progetto prosegua: dopo l’edizione del 2024, oggi varchiamo i confini della nostra città per un momento di dialogo con le tradizioni dell’arte del corallo non soltanto di un’altra città siciliana come Sciacca, ma anche di altre città d’Italia – Torre del Greco e Alghero – e oltre i confini nazionali, nel Mediterraneo con Tunisia e Andalusia.
Ci confronteremo non solo per raccontare la nostra tradizione, durante una sessione scientifica del convegno, ma vogliamo stilare un protocollo d’intesa per costituire una rete mediterranea delle città del corallo. L’obiettivo è avviare un percorso comune e condiviso di promozione, affinché questa antichissima e preziosa arte possa essere rinnovata e valorizzata congiuntamente” – così affermano Giacomo Tranchida, sindaco del Comune di Trapani e Rosalia d’Alí, assessore alla Cultura.
Per tutto dicembre, la Biblioteca Fardelliana proporrà un percorso audiovisivo dedicato al corallo trapanese: un docufilm che racconta tradizione e futuro attraverso l’intelligenza artificiale e un documentario che esplora il corallo tra arte, ricerca e innovazione. Due narrazioni complementari che offrono sguardi contemporanei su un’arte antica.
“Il corallo anima di Trapani” è un modello di valorizzazione che coniuga tutela delle tradizioni, innovazione e cooperazione internazionale.
Cultura
Solarino: l’incendio del 1944, la memoria perduta e i documenti spariti
Nel dicembre del 1944, un incendio devastò il Municipio di Solarino, distruggendo gran parte degli archivi storici della città e cancellando documenti fondamentali, tra cui gli atti comunali della fondazione. Quell’evento segnò una ferita indelebile nella memoria collettiva della comunità, lasciando un vuoto che ancora oggi non è stato colmato. Se alcuni documenti furono salvati dall’incendio, oggi non esistono tracce ufficiali nell’Archivio Storico Centrale. Tutto lascia intendere che siano finiti in collezioni private non autorizzate, sottratti alla fruizione pubblica e alla stessa cittadinanza.
Una situazione inaccettabile, che trasforma un bene pubblico in patrimonio di pochi, privando Solarino della propria storia e compromettendo la possibilità di ricostruire dati amministrativi, catastali e sociali fondamentali. Le modalità con cui l’incendio e la gestione dell’evento furono affrontate sollevano interrogativi inquietanti. L’inerzia delle autorità comunali dell’epoca e la rapidità con cui i documenti andarono perduti alimentano il sospetto che dietro alla distruzione ci sia stata più negligenza che casualità, se non vere responsabilità organizzate. Oggi, decenni dopo, quella negligenza si traduce in un fenomeno diffuso: molti privati detengono ancora materiali che dovrebbero appartenere al patrimonio pubblico. Il quadro attuale impone un’azione immediata e risoluta.

Chiunque possieda documenti ufficiali di Solarino ha il dovere legale e morale di restituirli all’Archivio Storico comunale, dove possano essere catalogati, conservati e resi accessibili a studiosi, cittadini e scuole. La mancata restituzione non è solo un danno culturale: è una violazione della legge e dei principi fondamentali di trasparenza e pubblicità del patrimonio pubblico.
Solarino rischia di perdere per sempre pezzi irripetibili della propria storia se non si interviene con determinazione.
L’Archivio Storico deve essere messo in sicurezza, dotato di spazi idonei, personale qualificato e strumenti digitali per garantire la consultazione pubblica. Ogni documento recuperato dalle collezioni private deve tornare alla comunità: è l’unico modo per trasformare la memoria perduta in patrimonio condiviso e impedire che la storia venga decisa da pochi privilegiati. L’incendio del 1944 resta un monito: la memoria di Solarino non può essere cancellata dall’inerzia, dall’incuria o dall’interesse privato.
La città ha il diritto di conoscere la propria storia, e chi detiene documenti pubblici senza autorizzazione deve restituirli senza indugio. È una questione di giustizia storica, civile e amministrativa: il tempo della tolleranza è finito.
Laura Liistro
Le immagini sono tratte dall’archivio del Comune di Solarino
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