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Cultura

LA FESTA E LA SCOPERTA DEL TAMBURELLO DI CETTY – DONNA CONCETTA

Redazione

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La storia del tamburello accompagna la storia della nostra terra Lu tammureddu (o tambureddu) è nu strumentu a pircussioni a mimbrana di urìggini antichissima; la prisenza ntê musei di statuini cô tamburu a curnici ntê manu, nni tistimonia l'antica èbbica di unni nni veni. Si dice… Si dice che non è più tempo di racconti, che la gente non parla più. Si dice che cinema, tv , internet e cassette hanno riempito gli spazi del narrare, del dar conto dell’esperienza e del renderci conto dell’esperienza. Si dice anche che corriamo troppo, che diciamo quattro sciocchezze al telefonino e scappiamo via, che non abbiamo più tempo per tessere di fronte all' altro le parole, la trama di un fatto osservato, vissuto o inventato. Si dice, ma non è vero. Eppure, lo scenario è davvero cambiato. Stiamo per ore a bocca aperta o quasi davanti alla tv, a Internet. Oppure per strada con la musica nelle orecchie… ma questa volta vi dico io qualcosa di vecchio… sì di vecchio e mi sento quasi un rivoluzionario, io che ho incominciato a scrivere… scrivere del mio passato, della mia terra, dei sapori perduti e di tutto ciò che nel bene e nel male oggi sono quel che sono grazie a quel passato ( scoprendo che sono oggi quello che ero prima… ma non lo sapevo). La Festa… – Brava! Brava! Bis! Era iniziato da poco il concerto della cantante Cetty (Concetta Battaglia) e già gli amici inseparabili il Professore, il Parrucchiere, Testa Rossa, il Cascone, s’erano riuniti per l’occasione, c’era anche il loro amico il Nobile accompagnato dal suo amico Karamanlis, giunto da Poros (isola della Grecia) per passare insieme le ferie. Tutti applaudivano la cantante; in più c’era il fotografo del paese, detto Angelo Click che col suo apparecchio fotografico era sempre pronto a scattare foto da prima pagina. Era quel che diceva sempre, incensandosi da solo. Seduti tutti in prima fila, ammiravano Cetty la cantante che stava sul palco, situato per l’occasione nei giardini pubblici del piccolo quartiere degli Archi, proprio al lato del bar del Cascone… la cantante era vestita con un abito tradizionale siciliano composto dal “La fadedda”, una gonna di lino lunga fino ai piedi, fermata in vita da una cintura e corredata da una sottoveste di cotone; u “Jippuni “, una blusa pesante dello stesso tessuto della fadedda; un fazzoletto colorato posto sulle spalle e fermato con un bellissimo spillone in petto, un grembiule, delle calze azzurre, delle scarpe nere ed infine un panno sulla testa…

La folla affluiva sempre più al richiamo della voce di Cetty che aveva concesso il bis ai ragazzi, anche se aveva iniziato a cantare da solo cinque minuti; i posti a sedere erano quasi esauriti. Il Professore si era seduto al fianco di Karamanlis, col quale di tanto in tanto scambiava qualche parola di greco (moderno…) guardandosi intorno, cercava, negli sguardi e sui visi delle persone che prestavano attenzione allo sfoggio del suo greco maccheronico, un elogio o un qualsiasi consenso di compiacimento al suo sapere. Il Testa Rossa, ascoltando il suo greco, si rivolse a Karamanlins che manifestava visibilmente il suo disagio per non avere compreso nulla di ciò che il Professore stava tentando di dire, e disse: – Karamanlins, vedi che ti sta parlando della bravura della cantante! La frase formulata e pronunciata in un perfetto greco. Karamanlins ringraziò il suo amico e sorrise al Professore che, a sua volta, sorrise ed elogiò il Testa Rossa dicendo: – Bravo Testa Rossa, niente male il tuo greco, se ti fa piacere puoi passare da me quando avrai un po’ di tempo, sarà un piacere poterti dare qualche piccola lezioncina di pronuncia, così il tuo greco sarà perfetto. Il Testa Rossa senza ribattere ringraziò il Professore (Peppe) per la sua disponibilità. Intanto, Testa Rossa non staccava gli occhi da Cetty che continuava a cantare le canzoni del suo repertorio e quando intonò “Vitti na Crozza” sfoggiò un bellissimo tamburello composto da un telaio che incorniciava un tessuto (pelle di capra) dipinto a mano con impressa l’immagine di Orlando, uno dei paladini dell’opera siciliana. E subito dopo l’amico Professore non perse l’occasione per parlare agli amici dell’origine di tale strumento “U Tampureddu… in italiano il Tampurello “. Beh…! A onor del vero nessuno di loro sapeva niente di quello strumento tanto conosciuto e tanto amato da sentirlo parte integrante della loro vita… come un parente di primo grado, non dico un fratello ma come un cugino… Tutti furono così unanimemente d’accordo che dopo l’esibizione della cantante davanti a delle brocche di birra nel bar-chioschetto del Cascone avrebbero avuto il piacere di ascoltare una lectio magistralis del nostro amato Professore sul decantato Tampurello… Al Chiosco… Il chiosco era situato a ridosso della chiesa delle Anime del Purgatorio, vicino alla barberia di Giovanni inteso “Testa Rossa”, e per arrivarci bisognava attraversare tutta la piazzetta… ed essendo molto vicino alla chiesa, dove vi era anche la fermata degli autobus, faceva sì che il chiosco fosse di gran lunga il più frequentato da tantissimi clienti e turisti cosiddetti “locali” provenienti dall’entroterra e da altre parti… Rispetto al “Bar dello Sport” che si trovava ad un tiro di schioppo dalla piazzetta, “il Chiosco” era meno fornito dal punto di vista di sale e di bagni (anche perché, proprio lui, il “Peppe proprietario del Chiosco” diceva che l’importante erano i prodotti ed il servizio) ma, come ogni chiosco che si rispetti, questo bisogna dirlo, dava un servizio affabile, e i coni e le granite erano veramente al

Top… della tradizione siciliana. Ah, a proposito dei bagni! Il Peppe affermava che a pochi metri vi erano dei bagni pubblici… che a parere suo erano pulitissimi (era una baggianata… erano sporchi e maleodoranti… alcuni dicevano che erano molto datati, il Professore sosteneva che anche Plinio il giovane aveva usufruito di tali vespasiani…). Gli amici del Chiosco si sedettero in modo chiassoso, salutando il Peppe che, dopo avergli portato delle birre bionde spumeggianti ritornò dietro il bancone… Il Professore iniziò a parlare delle origini del Tamburello in Sicilia… E fu così che tra un sorso e una battuta l’amico Professore iniziò a dire che Il tamburello aveva origini antichissime, forse esisteva già nel II millennio a.C. ed era comune a tutte le civiltà antiche dagli ebrei agli egizi, dai Sumeri agli Ittiti. Tale strumento era originario della Grecia, del Medio Oriente, del Magna Grecia e dell’ India. Il tamburello era nato allo scopo di accompagnare la musica tradizionale delle varie civiltà, soprattutto durante i banchetti e in occasione di importanti cerimonie. Gli archeologi hanno riportato alla luce antiche statue di donne sumere in possesso di tamurelli già a partire dal XXI secolo a.C. Anche negli Iblei, sono stati ritrovati alcuni graffiti rupestri in grotte risalenti a circa 6000 anni fa, che raffigurano lo strumento in oggetto. La cultura contadina di queste zone, basandosi su questi ritrovamenti, ha reso proprio il tamburello come simbolo della musica e della danza siciliana: la "Tarantella". Esistono due tipi di tamburello: quello ovale e quello circolare. Quello ovale viene chiamato anche tamburrina, tamburella, soffietta oppure ovalina; la tamburrina ha diverse misure, il diametro massimo è di 36cm e il peso non supera i 5hg. Quello di forma circolare ha un diametro di 28cm per gli adulti e 26cm per i bambini, il peso invece è solitamente contenuto tra i 450g e 520g per i tamburellisti professionisti. Il tamburello è uno strumento musicale a percussione detto anche tamburello basco ed è formato da una membrana di pelle tesa sopra ad un cerchio di legno. Nel telaio sono presenti delle fessure in cui sono applicate le cimbaline (sonaglietti) che arricchiscono il suono con il loro tintinnare. Le dimensioni del tamburello variano da un minimo di 25cm ad un massimo di 70 cm. Anche il numero di cimbali varia a seconda della gravità del suono. Oggi il tamburello viene utilizzato come strumento di accompagnamento per la tarantella, in quasi tutte le feste popolari siciliane. Purtroppo, però, sono ormai in pochi a continuare la tradizione della costruzione artigianale del tamburello. È un'arte praticata quasi esclusivamente dagli anziani ed è destinata a scomparire. E fu così… che gli amici del chiosco, prima di sorseggiare l’ultimo residuo di birra, videro passare la cantante Cetty che, accortasi della splendida erudizione del Professore sulla storia del Tampurello, gli fece dono del testo della canzone con cui aveva esordito sul palco, suonata con il decantato Tamburello… destando stupore e meraviglia da parte dell’incredulo gruppo… riportiamo qui di seguito con piacere il testo…

Amuri e Tarantella

Abballamu ‘sta tarantella – alligrìa ni metti assà – abballamu la tarantella n’annacamu di ccà e di ddà! – (Idda) Amuri miu attentu ca me frati – ni sta taliannu e nun vidi l’ura – di iri a sparlari cu me matri mi piglia a timpulati e su’ dulura! Abballamu ‘sta tarantella – masculi e fimmini chi ci fa – abballamu la tarantella e satamu di ccà e di ddà! -(Iddu) Amuri miu nun ti pigliari scantu – ti vogliu beni e n’am’ammaritari – iu vegnu n’di to patri e ci lu cuntu – “nun dormu chìù, so figlia m’avaddari! ” Abballamu ‘sta tarantella – alligrìa ni metti assà – abballamu la tarantella – n’annacamu di ccà e di ddà!

Salvatore Battaglia Presidente Accademia delle Prefi

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I racconti del vecchio marinaio di Pantelleria: Il rito antico della dragunera

Direttore

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Quel giorno lasciai gli scogli di San Leonardo più presto del solito, mentre i miei amici erano ancora a mollo a mare, in un’acqua trasparente e azzurrina come solo il mare di Pantelleria sa esserlo. Mi soffermai ancora una volta a leggere le scritte multicolori che rendevano meno triste il vecchio bunker di cemento armato della seconda guerra mondiale. L’amore di sempre: “ti voglio bene, “un cuore solo”, “ti amerò per sempre” precedute da un nome femminile e tante altre scritte, eredità amorose di generazioni di giovani panteschi. Una però faceva a pugni con tutte le altre, “Mariuccia buttana”. Doveva essere stato davvero un brutto tradimento, per bollarlo con un marchio di fuoco e per tramandarlo così ai posteri.

Giunsi sulla banchina e lo vidi seduto sulla solita bitta di fronte al castello, la nuvola azzurrina del fumo della sua pipa gli conferiva una strana aureola di mistero. Avevo deciso di porgli alcune domande, ma appena mi vide cominciò a parlare con voce arrochita dal tabacco e dalla salsedine. “Il veliero Madonna di Trapani era un vero e proprio gioiello della marineria pantesca. Due alberi, bompresso lungo come una lancia, vele latine che sapevano piegarsi al vento, ma non alla paura. Patrun Vitu, il suo comandante, era un uomo di mare e di silenzi infiniti, con le mani dure come la nostra pietra lavica e gli occhi di un verde misterioso, che avevano visto tempeste e miracoli. Nelle sue mani il timone seguiva docilmente l’invisibile linea della rotta fissata.

Quel giorno, ero ancora picciotto ‘i varca, avevamo da diverse ore passatu l’isola di Ustica e puntavamo, con tutte le vele spiegate su Trapani, fermarci qui la notte e il giorno seguente tornare a Pantiddraria, dove dovevamo sbarcare delle merci comprate a Napoli. Il mar Tirreno sembrava quieto e il vento amico, ma ‘ogni marinaio sa che “Cu ventu e cu mari nun si fa cuntrattu” (Col vento e col mare non si fa contratto). Così all’improvviso il cielo cambiò.

Una linea nera si stese sull’orizzonte, e il vento cadde morto di colpo. I marinai si guardarono l’un l’altro muti e attoniti. Il capitano Vito salì sul ponte e scrutò quel cielo nerastro e la vide: una dragunera (tromba marina), la maledizione antica e rabbiosa per chi va per mare. Essa, sottile e affilata, scendeva dal cielo come il dito di dio marino irato, girando vorticosamente sull’acqua.

Il nostromo Turi colse l’ansia e il timore degli altri uomini dell’equipaggio e chiese a patrun Vitu di virare. Ma Vito no, non solo perché la cosa era impossibile per mancanza di vento, ma perché egli era uomo che accettava intrepido le sfide in mare. Lui conosceva lu ritu anticu, lo aveva visto fare

da suo nonno e da suo padre prima di lui. Aprì il baule sotto il timone e ne trasse un coltello d’ossidiana, nero come la notte e affilato come il silenzio che precede la burrasca. Poi disse deciso “Mantenete la rotta, non si fugge davanti alla dragunera. Si tagghia”.

Si diresse a prua e la sua figura alta e possente sembrò dominare le onde. Il vento intanto aveva ripreso a soffiare forte e impetuoso che a momenti gli strappava il berretto. La dragunera si avvicinava, ululando conne una magara. Vito attese, fermo, come nu parrinu davanti all’artari. Quando la coda della tromba marina fu a portata, egli disse vecchie parole che non si potevano intendere, poi tracciò con il coltello d’ossidiana una grande croce nell’aria e recitò a voce alta questa preghiera:

Nniputenza di lu Patri,
Sapienza di lu Figghiiu,
pi virtù di lu Spiritu Santu
e pi nnomu di Maria
sta cuda tagghiata sia

Un suono sordo, come un lamento, si levò dal mare. La vorticosa colonna d’acqua si dissolse e il cielo si aprì all’azzurro. Tutti noi marinai, increduli, guardavamo ammirati e a un tempo intimoriti il capitano come si guarda un uomo che ha parlato allora allora con gli spiriti. Vito tornò al timone, rimise il coltello di ossidiana nel baule e disse solo: “Adesso a casa”. Al tramonto del giorno dopo Pantelleria ci apparve all’orizzonte, nera e fiera e materna. Il Madonna di Trapani, come sempre, entrò in velocità nello stretto passaggio che dava al porto vecchio. Solo capitan Vito e qualche altro patrun si potevano permettere di sfidare la scogliera cartaginese semisommersa.

La voce del subitaneo taglio della dragunera si sparse, in un battibaleno, in tutte le contrade dell’isola e da quel giorno ogni marinaio pantesco che incrociava patrun Vitu lo salutava con rispetto misto ad ammirazione. Perché non tutti sanno tagghiare la coda a una tromba marina. E soprattutto non tutti hanno il coraggio di farlo”.

Il vecchio marinaio si tacque definitivamente.
Girò le spalle e si mise a guardare, assorto, il mare come aspettasse l’arrivo di qualcuno, intanto la nuvola azzurrina del fumo della pipa, che lo avvolgeva in tenui volute, gli conferiva un certo non so che di misterioso.

Orazio Ferrara


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Cultura

Trapani e l’oro rosso del Mediterraneo: “Il Corallo anima di Trapani”. Un mese di eventi

Redazione

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Dal 2 al 19 dicembre 2025, Trapani celebra la sua storica tradizione corallara con la seconda edizione di “Il Corallo anima di Trapani”, un programma che coinvolgerà studenti, artigiani, istituzioni e comunità del Mediterraneo.
L’iniziativa, promossa dal Comune di Trapani e dalla Biblioteca Fardelliana con il contributo dell’Assessorato delle Autonomie Locali e della Funzione Pubblica della Regione Siciliana intreccia formazione, cultura e diplomazia mediterranea per preservare e tramandare l’antica arte della lavorazione del corallo.
Dal 2 al 5 dicembre, le botteghe e showroom trapanesi apriranno le porte agli studenti per visite guidate alla scoperta dei segreti di quest’arte millenaria.
Il percorso prosegue dal 9 al 12 dicembre al Museo Regionale Pepoli con il laboratorio creativo “Dal Mediterraneo al Museo – Il viaggio del corallo”, curato dall’Associazione “Amici del Museo Pepoli”.
Il 13 dicembre alle ore 17.00, sempre al Museo Pepoli, verrà presentato il restauro del prezioso Presepe in corallo del XVIII secolo, capolavoro dell’artigianato trapanese.
L’evento culminante si terrà il 19 dicembre alle ore 17.30 alla Biblioteca Fardelliana: la tavola rotonda internazionale “Rotte del Corallo – Dialogo tra culture mediterranee” vedrà rappresentanti istituzionali e maestri corallai e la firma di un protocollo della “Rete Mediterranea delle Città del Corallo”, un’alleanza che consolida i legami tra le comunità mediterranee unite da questa tradizione.
“Quest’anno proponiamo la seconda edizione de “Il Corallo anima di Trapani”. Siamo estremamente orgogliosi che questo progetto prosegua: dopo l’edizione del 2024, oggi varchiamo i confini della nostra città per un momento di dialogo con le tradizioni dell’arte del corallo non soltanto di un’altra città siciliana come Sciacca, ma anche di altre città d’Italia – Torre del Greco e Alghero – e oltre i confini nazionali, nel Mediterraneo con Tunisia e Andalusia.
Ci confronteremo non solo per raccontare la nostra tradizione, durante una sessione scientifica del convegno, ma vogliamo stilare un protocollo d’intesa per costituire una rete mediterranea delle città del corallo. L’obiettivo è avviare un percorso comune e condiviso di promozione, affinché questa antichissima e preziosa arte possa essere rinnovata e valorizzata congiuntamente” – così affermano Giacomo Tranchida, sindaco del Comune di Trapani e Rosalia d’Alí, assessore alla Cultura.
Per tutto dicembre, la Biblioteca Fardelliana proporrà un percorso audiovisivo dedicato al corallo trapanese: un docufilm che racconta tradizione e futuro attraverso l’intelligenza artificiale e un documentario che esplora il corallo tra arte, ricerca e innovazione. Due narrazioni complementari che offrono sguardi contemporanei su un’arte antica.
“Il corallo anima di Trapani” è un modello di valorizzazione che coniuga tutela delle tradizioni, innovazione e cooperazione internazionale.

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Cultura

Solarino: l’incendio del 1944, la memoria perduta e i documenti spariti

Laura Liistro

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Nel dicembre del 1944, un incendio devastò il Municipio di Solarino, distruggendo gran parte degli archivi storici della città e cancellando documenti fondamentali, tra cui gli atti comunali della fondazione. Quell’evento segnò una ferita indelebile nella memoria collettiva della comunità, lasciando un vuoto che ancora oggi non è stato colmato. Se alcuni documenti furono salvati dall’incendio, oggi non esistono tracce ufficiali nell’Archivio Storico Centrale. Tutto lascia intendere che siano finiti in collezioni private non autorizzate, sottratti alla fruizione pubblica e alla stessa cittadinanza.

Una situazione inaccettabile, che trasforma un bene pubblico in patrimonio di pochi, privando Solarino della propria storia e compromettendo la possibilità di ricostruire dati amministrativi, catastali e sociali fondamentali. Le modalità con cui l’incendio e la gestione dell’evento furono affrontate sollevano interrogativi inquietanti. L’inerzia delle autorità comunali dell’epoca e la rapidità con cui i documenti andarono perduti alimentano il sospetto che dietro alla distruzione ci sia stata più negligenza che casualità, se non vere responsabilità organizzate. Oggi, decenni dopo, quella negligenza si traduce in un fenomeno diffuso: molti privati detengono ancora materiali che dovrebbero appartenere al patrimonio pubblico. Il quadro attuale impone un’azione immediata e risoluta.


Chiunque possieda documenti ufficiali di Solarino ha il dovere legale e morale di restituirli all’Archivio Storico comunale, dove possano essere catalogati, conservati e resi accessibili a studiosi, cittadini e scuole. La mancata restituzione non è solo un danno culturale: è una violazione della legge e dei principi fondamentali di trasparenza e pubblicità del patrimonio pubblico.

Solarino rischia di perdere per sempre pezzi irripetibili della propria storia se non si interviene con determinazione.

L’Archivio Storico deve essere messo in sicurezza, dotato di spazi idonei, personale qualificato e strumenti digitali per garantire la consultazione pubblica. Ogni documento recuperato dalle collezioni private deve tornare alla comunità: è l’unico modo per trasformare la memoria perduta in patrimonio condiviso e impedire che la storia venga decisa da pochi privilegiati. L’incendio del 1944 resta un monito: la memoria di Solarino non può essere cancellata dall’inerzia, dall’incuria o dall’interesse privato.

La città ha il diritto di conoscere la propria storia, e chi detiene documenti pubblici senza autorizzazione deve restituirli senza indugio. È una questione di giustizia storica, civile e amministrativa: il tempo della tolleranza è finito.

Laura Liistro

Le immagini sono tratte dall’archivio del Comune di Solarino

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