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Ambiente

Come si spostano le plastiche sulla superficie degli oceani? Un modello spiega il meccanismo

Giuliana Raffaelli

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Quando si parla di plastica, purtroppo, il pensiero corre sempre lì: al nostro mare e alle nostre spiagge, e ai danni che essa provoca agli ecosistemi marini.

Ci pensiamo soprattutto in questo momento dell’anno. L’avvicinarsi della primavera e dell’estate rende tutti infatti più sensibili al problema della spazzatura che invade gran parte dei nostri meravigliosi 7500 km di costa. Ma oggi non vogliamo guardare alla nostra spiaggia o al nostro chilometro di litorale. Vogliamo guardare oltre.

Si chiama Great Pacific Garbage Patch ed è un’isola. Per poterla visualizzare in tutta la sua portata, chiudete gli occhi e pensate di essere in un luogo lontano, sperduto negli spazi infiniti dell’oceano Pacifico settentrionale. In un’isola che ha una superficie che è almeno il doppio di quella delll’Italia, o se preferite più grande della Francia o della penisola iberica. Una immensa isola. Ma non di sabbia o di rocce. Di plastica. Sì, una immensa isola di plastica. Non frutto di una sfrenata fantasia, ma di una tragica realtà.

Ha iniziato a formarsi negli anni ’80 del secolo scorso, grazie alla sinergica azione dell’uomo (che ha fornito la materia prima) e della natura (il vortice subtropicale del nord Pacifico, una corrente oceanica tra l’equatore e il 50° di latitudine nord). Anche se la sua estensione non è proprio chiarissima, si stima possa avere una superficie tra 700 mila e 10 milioni di km². Secondo l’Unep, il programma delle nazioni unite per l’ambiente che dal 1972 si batte contro i cambiamenti climatici in tutela dell’ambiente, in tempi brevi questa nuova isola sarà visibile anche dallo spazio.

Un team di ricercatori ha voluto indagarla approfonditamente, per capire i meccanismi che sono alla base della sua formazione e per identificare le precise aree di provenienza dei detriti che la compongono. E per farlo hanno esplorato le traiettorie percorse dalle plastiche dalle coste continentali agli oceani, mettendo in relazione l’accumulo a lungo termine di detriti con le rotazioni subtropicali degli oceani. Ma questo non è stato l’unico obiettivo della ricerca. Vediamola più nel dettaglio.

L’importante studio, pubblicato di recente dalla rivista Chaos, è stato condotto da Philippe Miron, ricercatore del dipartimento di scienze dell’atmosfera dell’università di Miami (Florida), in collaborazione con tre accademici afferenti a istituti tedeschi: Francisco Beron-Vera dell’istituto di matematica dell’università Freie, Luzie Helfmann del dipartimento di modellazione e simulazione dei processi complessi dello Zuse di Berlino e Peter Koltai dell’istituto per la ricerca sull’impatto climatico di Posdam.

Il gruppo ha creato un modello matematico della catena di Markov applicato alle dinamiche di superficie degli oceani partendo dai dati forniti dalle traiettorie storiche delle boe di superficie. Il loro modello descrive la probabilità che le plastiche “terrestri” (cioè solo quelle che finiscono in mare dalle coste), e i loro detriti (anche le microplastiche), possano venire trasportate da una regione all’altra della superficie oceanica, in base all’area di immissione/rilascio. La teoria delle traiettorie di transizione ha permesso ai ricercatori di identificare i percorsi che collegano una sorgente direttamente a un obiettivo. Nel lavoro sono stati indagati approfonditamente tre tipi di percorsi: quello che dalla costa porta alle rotazioni subtropicali, quello che da una rotazione subtropicale conduce a un’altra e, infine, quello che da una rotazione porta nuovamente alla costa.

Philippe Miron, prima firma della pubblicazione scientifica, spiega come è stato condotto lo studio: “Per osservare la distribuzione a lungo termine dei detriti galleggianti, i detriti arenati sono stati re-introdotti nel sistema seguendo la stessa distribuzione. Chiamiamo questo modello “inquinamento consapevole”, perché modella la re-introduzione, la dispersione e il ricircolo dei detriti all’interno del sistema”.

Quali risultati sono stati raggiunti?

Innanzitutto sono state riconosciute e tracciate le traiettorie che le plastiche percorrono una volta che si trovano sulla superficie del mare. È stata poi approfondita la “stabilità” degli ammassi che si formano, quantificando la relazione tra questi e la capacità dei rifiuti di rimanere intrappolati nell’accumulo stesso. Infine, è stato identificato chiaramente il canale che collega il Great Pacific Garbage Patch con le coste dell’Asia orientale, che rappresenterebbero quindi la fonte primaria dell’inquinamento da plastica di questo specifico accumulo.

Il modello matematico ha poi confermato che “la debolezza del vortice dell’oceano Indiano come trappola di detriti di plastica è coerente con i percorsi di transizione che non convergono all’interno del vortice. Cioè, in caso di venti molto intensi, un vortice subtropicale è più probabile che esporti i rifiuti verso le coste piuttosto che in un altro vortice”. E mentre il vortice subtropicale del Pacifico settentrionale attrae la maggior parte dei detriti (confermando precedenti valutazioni), il vortice del sud Pacifico è più stabile, perché i detriti hanno meno vie d’uscita e quindi vi sfuggono più difficilmente.

Questi ricercatori si sono prefissati l’obiettivo di continuare lo studio applicando il modello matematico ad altri accumuli di plastiche, in particolare quelli presenti nei golfi di Guinea e Bengala.

L’importanza di tali ricerche non è puramene teorica ma risiede proprio nelle implicazioni pratiche, in particolare legate alle attività di pulizia degli oceani. Chiarire le vie di inquinamento reattivo seguite dai rifiuti permette di andare alla fonte dell’inquinamento e di ottimizzare gli sforzi per la loro rimozione.

Sarebbe molto interessante se un simile modello venisse applicato anche al bacino del Mediterraneo e alle sue correnti. Si potrebbero chiarire quali siano le reali aree di provenienza dei rifiuti che ogni giorno si accumulano sulle nostre coste. Essi sono sì attribuibili allo scarso senso civico (o alla semplice mancanza di una educazione di base) delle persone che vi abitano, ma anche alla medesima lacuna nei cittadini al di là del mare.

(Credit immagine: Unsplash Licence)

Giuliana Raffaelli

Laureata in Scienze Geologiche, ha acquisito il dottorato in Scienze della Terra all’Università di Urbino “Carlo Bo” con una tesi sui materiali lapidei utilizzati in architettura e sui loro problemi di conservazione. Si è poi specializzata nell’analisi dei materiali policristallini mediante tecniche di diffrazione di raggi X. Nel febbraio 2021 ha conseguito il Master in Giornalismo Scientifico all'Università Sapienza di Roma con lode e premio per la migliore tesi. La vocazione per la comunicazione della Scienza l’ha portata a partecipare a moltissime attività di divulgazione. Fino a quando è approdata sull’isola di Pantelleria. Per amore. Ed è stata una passione travolgente… per il blu del suo mare, per l’energia delle sue rocce, per l’ardore delle sue genti.

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